La commemorazione delle stragi di mafia, l'ultima lo scorso 19 luglio, quella che ricordava il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. Gli atti vandalici ai danni dei monumenti alle vittime di Cosa Nostra, intimidazioni o stupide bravate: su questo non c'è una risposta. Naturalmente si parla anche di lui, Matteo Messina Denaro, la primula rossa di Castelvetrano, quell'inafferrabile fantasma di cui ogni tanto abbiamo notizia per le ciclopiche operazioni di polizia e carabinieri che pongono sotto sequestro un patrimonio infinito. La tattica della 'terra bruciata' sembra quella vincente, ci si chiede però quanta terra sia rimasta da bruciare prima del suo arresto.

Talvolta veniamo a sapere che i magistrati della Direzione Investigativa antimafia sono stati ad un passo da quello che sarebbe considerato l'arresto del secolo, salvo poi l'imprevisto per cui tutto è sfumato. Piuttosto le domande sono altre: chi è oggi Matteo Messina Denaro? L'ultimo dei grandi boss di Cosa Nostra e, a tutti gli effetti, il capo indiscusso dell'organizzazione? Oppure è solo l'ultimo dei dinosauri, esemplare di una specie in via di estinzione che si sforza di inseguire le 'glorie' di un passato di egemonia criminale ormai tramontato? E la mafia di oggi, sebbene certamente viva e palpitante, è ancora pericolosa come ai tempi di Falcone e Borsellino?

Matteo Messina Denaro: il parere controcorrente

Tra i pareri controcorrente, citiamo innanzitutto quello di Sergio Lari. Per il Procuratore generale di Caltanissetta, Messina Denaro è "l'ultimo dei mohicani della vecchia mafia, probabilmente padrino della provincia di Trapani oltre che, sicuramente, capo del mandamento di Castelvetrano.

Ma non è il capo di Cosa Nostra, anche perché la vecchia cupola mafiosa non esiste più". Molto più diretto Salvatore Lupo, autore insieme a Giovanni Fiandaca de "La mafia non ha vinto". Il libro, parecchio discusso, è uscito nel 2014 e punta il dito sul pool di magistrati palermitani che hanno incardinato il processo sulla 'Trattativa Stato-mafia'.

Per gli autori, "la Trattativa non è un reato, perché la mafia non ne ha avuto alcun beneficio". La tesi sulla quale regge il procedimento sarebbe in realtà piuttosto ambigua nella visione di Lupo e Fiandaca, perché offre agli italiani l'immagine di una mafia che ha vinto in quella circostanza e che vince sempre, quando invece non è così. Tornando a Matteo Messina Denaro, lo stesso Salvatore Lupo ne parla come "un boss pericoloso", ma spacciarlo oggi come il nuovo capo dei capi è una "ricostruzione retorica dei media. La sua cattura viene presentata come lo scontro finale con Cosa Nostra, in realtà lui non è riconosciuto da molti altri boss siciliani". Elemento, quest'ultimo, testimoniato da intercettazioni ai danni di personaggi di spicco della mafia siciliana.

La crisi di Cosa Nostra

Oggi, probabilmente, la mafia non ha un capo. L'ultimo capo dei capi è in carcere, è molto avanti con gli anni e le sue condizioni di salute sono precarie. Totò Riina viene considerato ancora il vero capo di Cosa Nostra, ma è più una sorta di ingombrante monumento, l'unico che resiste alla legge del tempo dopo la morte di Bernardo Provenzano, la cui longevità, di fatto, avrebbe bloccano la nomina dei nuovi vertici mafiosi. Sempre che esista ancora un'organizzazione verticistica come la famosa cupola illustrata dalla celebre testimonianza di Tommaso Buscetta al maxiprocesso. La verità è che la mafia siciliana è ormai lontana dai 'massimi splendori' vissuti tra la fine degli anni '70, gli anni '80 ed i primi anni '90 del secolo scorso.

Sarebbe un errore considerarla un'organizzazione finita, perché i boss hanno ancora in mano un cospicuo numero di attività economiche in Sicilia ed in altre parti d'Italia. Ma dagli anni '90 ad oggi, tra arresti, aumento vorticoso dei collaboratori di giustizia, sequestri di beni e la ciliegina sulla torta della crisi economica, Cosa Nostra ne esce certamente ridimensionata: nel suo 'esercito', ma anche nei ricavi finanziaria. L'ultimo rapporto sui ricavi delle organizzazioni criminali in Italia, ad opera del centro Transcrime e dell'Università Cattolica di Milano, dava in una cifra pari ad 1,87 miliardi di euro i ricavi della mafia siciliana in tutto il territorio nazionale (l'anno in questione era il 2007), praticamente la metà rispetto alla 'ndrangheta calabrese ed alla camorra napoletana.

Nei primi anni '90, soltanto nella città di Palermo, il business dei boss superava i due miliardi di lire.

La leadership perduta

Le operazioni di polizia, la crescita di altre organizzazioni, la presenza della criminalità straniera. Sono tanti i motivi che hanno tolto alla mafia siciliana il monopolio economico. Era il 1993 quando nel trapanese, nella contrada Virgini di Alcamo, venne scoperta la più grande raffineria di eroina d'Europa. Era il periodo in cui la droga prodottta in Sicilia invadeva il mercato americano. Oggi si dice spesso che gli interessi economici della mafia siciliana si siano spostati su altri versanti, come le grandi opere edilizie. Anche in questo caso si tratta di un'analisi errata, sconfessata dai numeri: negli anni '80 il giro d'affari dell'edilizia fruttava a Cosa Nostra, nella sola Palermo, qualcosa come tremila miliardi di vecchie lire, oggi non sono rimaste neanche le briciole.

Il centro della droga in Italia si è spostato in Calabria, sono i boss della 'ndrangheta che fanno arrivare nel Belpaese la maggior parte di sostanza stupefacente proveniente dal Sudamerica che viene immessa anche sul mercato siciliano. Ed a Palermo, i boss sono venuti a patti con le nuove mafie, quelle straniere (nigeriani in particolare) alle quali è stata concessa una fetta del traffico di stupefacenti.

Ritorno alle origini

Lo scorso giugno, un'operazione dei carabinieri coordinata dalla Dda di Catania portò all'arresto di 19 persone, in buona parte affiliati alle cosche di Vittoria e Comiso e smantellò un traffico di droga e di bestiame tra Sicilia e Calabria. Sembra il segnale di come molti mafiosi stiano tornando ad attività come quelle che ne avevano caratterizzato l'ascesa economica a cavallo tra le due guerre e nell'immediato secondo dopoguerra, una mafia rurale che, al di là della droga che è l'unico elemento 'moderno', è tornata ad occuparsi di furti di bestiame e mezzi agricoli, estorsioni e datati racket come quello sulle macellazioni.

"Una parte di Cosa Nostra sembra si sia ritirata nelle campagne - ha commentato in proposito il procuratore Sergio Lari - per proseguire in maniera diversa i propri affari, certamente meno fruttuosi rispetto a quelli delle grandi città, ma lontani dai riflettori delle autorità e, dunque, quasi al sicuro".

L'inutile retorica

La mafia esiste ancora, meno pericolosa e penetrante di un tempo e schiacciata dalla concorrenza di altre organizzazioni criminali, ma esiste. Una mafia di affaristi silenti che non uccide più, ma talvolta è ancora in grado di farlo. Il caso dell'omicidio del boss Giuseppe Dainotti alla Zisa, in pieno centro urbano di Palermo, è indicativo in tal senso, ma si è trattato comunque di un episodio isolato.

La mafia è in crisi e sta cercando disperatamente di sopravvivere, non è più quella di tempo, anche se questo non autorizza nessuno ad abbassare la guardia. Oggi la mafia non fa più notizia, in parte perché non si lascia più dietro le scie di sangue che ne avevano caratterizzato i decenni passati, ma anche perché le continue commemorazioni delle vittime di Cosa Nostra si stanno rapidamente svuotando di significato e, senza nulla togliere al valore storico e sociale del ricordo, sono sempre più decontestualizzate dalla realtà odierna. Le coscienze ridestate dalle stragi dei primi anni '90 sono tornate in letargo e, al di là della memoria corta ed una scarsa conoscenza storica di cui è cronicamente affetto l'italiano medio, una delle cause è l'inutile retorica con la quale il problema viene presentato oggi.

La retorica indirizzata ad alimentare un mito sbiadito, il Matteo Messina Denaro in versione 'Diabolik' è un esempio in tal senso, ma anche a porre in luce l'accettazione ed il consenso di una parte del popolo siciliano dinanzi alla mafia, salvo poi esaltare presunti 'crociati' che si danno in pasto all'opinione pubblica come consumati showman. La retorica di tanti 'Don Chisciotte', quelli che si presentano senza macchia e senza paura e dipingono una mafia simile a quella di venticinque anni fa. Ma questo autoincensarsi è sempre meno credibile e, nel contempo, sminuisce il lavoro che fu di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e di tutti coloro che hanno pagato il prezzo più alto per le loro battaglie.

Perché se oggi la mafia è in crisi, il merito è di coloro che l'hanno davvero combattuta ed hanno saputo infliggerle pesanti sconfitte. Attualizzare il problema, partendo dalle vittorie dello Stato ed analizzando Cosa Nostra ai giorni nostri, sarebbe certamente un ulteriore passo avanti, ma probabilmente toglierebbe il 'lavoro' a troppi professionisti dell'antimafia.