Il 15 febbraio al teatro Orione di Roma è stata portata in scena la dipendenza affettiva [VIDEO] dall’associazione “Corti da legare”. L’obbiettivo che si è prefissata questa compagnia è principalmente uno: parlare al grande pubblico dei disturbi mentali, sfatando i tabù e i pregiudizi che vi ruotano attorno. La dipendenza affettiva, infatti, è il tema del quarto e penultimo incontro di questa associazione, che negli eventi dei mesi precedenti ha già affrontato disturbi quali quello del gioco d’azzardo, del disturbo ossessivo compulsivo e della depressione.
Il raggiungimento di questo obbiettivo è stato ottenuto con il connubio tra teatro e psicologia. Infatti, all’inizio si assiste ad un corto teatrale, seguito poi da un dibattito. Lo spettacolo, se pur breve, presenta con chiarezza il disturbo di cui poi si andrà a parlare, permettendo così di comprendere con maggiore facilità il tema proposto per chiunque non sia del settore.
“Con amore, Arianna”
“Con amore, Arianna” è il titolo del corto messo in scena il 15 febbraio, scritto da Claudio Politi e interpretato da Laura Adriani e Igor Petrotto. Arianna, ormai libera da questa forma di love addiction, riguarda alle sue storie passate, in particolare ai suoi tre grandi amori che avevano un denominatore comune: lei, lei e il suo modo malsano di amare.
Giulio, Luciano ed Edoardo si susseguono l’uno con l’altro, si alternano in un continuo dialogo con Arianna e una animata discussione si trasforma in una confessione, fino a raggiungere la resa e, cosa più importante, il perdono. La storia dei suoi amanti lascia ben intendere quale sia il ruolo che va a ricoprire chi soffre di dipendenza affettiva: l’eroina che arriva e ti salva, la crocerossina.
Giulio, infatti, è un bugiardo patologico che tradiva Arianna (consapevole di questo) e che spariva anche per giorni interi senza dirle niente. Ma, come ammetterà lei stessa, era proprio questo allontanarla ad avvicinarla sempre di più a lui. Ed è con Giulio, nel momento di resa e perdono nonché di addio, che si arriva a parlare di un tema cruciale: l’autenticità.
Autenticità che non significa “vero”, ma “che opera da sé”, come vuole l’etimologia greca. Arianna dice «Io non ero autentica», ammettendo così di non aver avuto alcun potere su se stessa nella loro relazione e di quelle a seguire. «Ero innamorata della tua tristezza», continua, spiegando a Giulio il motivo su cui si fondava la loro storia: salvarlo, esserci costantemente, fare dei problemi di lui la sua ragione di vita.
Luciano, il secondo, è invece un alcolizzato, un uomo rozzo, da birra e partite. «Ma io volevo proprio che tu fossi così» gli dice Arianna. Con lui viene messa in scena un’altra sfaccettatura di questa dipendenza affettiva: il ruolo del sesso. Lei stessa si definisce una «campionessa» e rivela che far godere il suo partner era il suo sport.
Ma dietro non c’era un desiderio sessuale sano e maturo, ma un dovere, una necessità: «perché se Arianna è brava a letto è più difficile da lasciare».
Edoardo è l’ultimo dei suoi amori passati ed è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. È un uomo frustrato, insegnante di scrittura creativa sebbene lui stesso non riesca a scrivere nemmeno un racconto di due pagine, nascondendo la sua incapacità dietro scuse e citazioni colte. Edoardo aveva bisogno di una relazione che lo gratificasse, che lo mettesse su un piedistallo e Arianna non desiderava altro che farlo. Solo quando si rimpossessa di sé, lei è in grado di dire la verità, di definirlo come «un intellettualoide» ed essenzialmente un fallito che sminuisce tutto ciò che non comprende, che sminuisce lei.
Voleva una schiava ed Arianna era lì pronta a servirlo in tutto.
Sia con Giulio, sia con Luciano che con Edoardo Arianna metteva in atto sempre gli stessi comportamenti, che la facevano sembrare ai loro occhi una “pazza gelosa”. Arianna era assillante e ossessiva, chiamava in continuazione e chiedeva motivi e spiegazioni per ogni cosa, per ogni “no” che riceveva. Tutti gli “stasera non posso” erano susseguiti da un interrogatorio, da liti furiose che finivano sempre con lei in lacrime che si scusava per essersi arrabbiata, arrivando a diventare patologica anche nel chiedere perdono. Giulio, Luciano ed Edoardo nel dialogo con Arianna tirano fuori un’ulteriore questione: il rapporto che lei aveva con il padre, attribuendo a questo la ragione dei suoi comportamenti folli.
Chi con più convinzione e chi con una certa nota di derisione. E infatti la dipendenza affettiva di Arianna nasce proprio da questo, dalle mancanze del padre che lei cerca di colmare, colmando le mancanze degli altri. Toccante è il racconto di lei e del padre, toccante è la lettera che gli ha scritto quando un tumore lo aveva condotto in fin di vita in ospedale. Una lettera che, però, Arianna scrive troppo tardi, quando ormai il padre non può più né leggere né ascoltare. «Non so se mi dispiace di più adesso che non mi puoi parlare o, prima, quando non mi volevi parlare». Bello è il finale del corto, quando Arianna si incontra con il suo nuovo fidanzato, con cui ha finalmente instaurato un rapporto sano e maturo.
È riuscita ad amare una persona, ma non troppo e questo è un bene, come ammette lei stessa. Per amare qualcun altro, bisogna essere prima in grado di amare se stessi. In una relazione non bisogna annientarsi per far risplendere l’altro. Cruciale, infine, è lo scambio di battute finali in cui i due si salutano: «stasera non ci sono» dice lui, «e allora ci vediamo domani» ribatte lei. Un «e allora ci vediamo domani» allegro e leggero, che non ha più bisogno di incessanti domande. Perché Arianna non ne ha più bisogno.
Ma perché si arriva a soffrire di dipendenza affettiva?
Il dibattito che ha seguito questo corto teatrale è stato portato avanti, principalmente, dalla psicoterapeuta Maria Chiara Gritti, autrice del libro “La principessa che aveva fame di amore”.
Il titolo di questo testo, che tratta in chiave favolista la dipendenza affettiva, non è casuale. La parola “fame” infatti richiama un altro disturbo: quello alimentare [VIDEO]. Love addiction e alimentazione sono in stretto legame tra loro, perché attraverso entrambi l’individuo arrivare a colmare i vuoti che ha dentro. Maria Chiara Gritti, di fatto, spiega che proprio per questo è facile trovare nei pazienti che soffrono di dipendenza affettiva trascorsi di disturbi alimentari, piuttosto che abusi di sostanze.
Anche la solitudine, se non più la paura stessa della solitudine, è legata inevitabilmente a questo disturbo. Se una persona teme di rimanere sola, anzi peggio, che da sola non sa stare, instaurerà inevitabilmente una relazione malsana, alla cui base non ci sarà una sana voglia dell’altro.
Queste persone usano l’amore come mezzo per sfuggire a loro stesse, preferiscono dedicare anima e corpo al partner pur di non pensare ai vuoti che hanno dentro. Ma è proprio in quel vuoto che bisogna cominciare a guardare, scoprendo con sorpresa che poi così vuoto non è mai. Come spiega Maria Chiara Gritti, solo riuscendo ad entrare in contatto con il vuoto che abbiamo dentro, possiamo arrivare a trovare noi stessi. E questi buchi interiori non sono causati che da delle mancanze e assenze, soprattutto genitoriali. Modelli educativi instabili andranno a creare inevitabilmente un individuo ambivalente ed evitante. Ma la persona non simula uno stato di dipendenza e di bisogno incessante del partner.
No. Qui ritorna il concetto di autenticità discusso nel corto: fin da piccoli, questi soggetti imparano che per guadagnare l’amore dell’altro, in quel caso quello dei genitori, devono far di tutto per ottenerlo. Il loro modo di comportarsi non è finizione, ma è l’unico stile comportamentale che conosco per stare al mondo. Ma Maria Chiara Gritti spiega come ci sia una forte componente di trasmissibilità di queste mancanze: se il padre o la madre non sanno dare amore, probabilmente non ne hanno nemmeno ricevuto a loro volta. Certo non è una catena indissolubile, Arianna è riuscita infatti a spezzarla, decidendo di farsi aiutare.
Un’altra maniera, invece, di guardare alla dipendenza affettiva, se pure semplicistico, è quello di trovare alla sua origine una degenerazione della presa di un ruolo sociale.
Ovvero, per quanto riguarda il genere femminile che è anche quello più colpito, l’idea di fondo che il ruolo della donna, in quanto madre, sia quello di doversi prendere cura dell’altro. Perché dipendenza affettiva non è tanto identificazione con l’altro, quanto dedizione all’altro. Sebbene ora la società stia facendo dei grandi passi avanti, come fa notare la stessa attrice Laura Adriani, per anni l’idea di donna che si è diffusa è quella che la vede realizzata solo se sposata e con figli, solo se con qualcuno a carico. Ed è per questa tendenza a ricollegare la dipendenza affettiva al genere femmile, che Maria Chiara Gritti ha scelto di concludere la serata con la testimonianza di un paziente maschio.
Perché mentre per una donna è più facile chiedere aiuto, per un uomo vincolato dai dettami della società non lo è affatto. Bisogna allora iniziare a parlare più apertamente dei disturbi mentali, per far capire che non sono motivo di vergogna e reclusione, per far capire che farsi aiutare non è sbagliato, anzi. Farsi aiutare aiuta a vivere meglio con se stessi e con gli altri. Certo, da dove iniziare? L’associazione “Corti da legare” decide di partire dal palco di un teatro.