Il maxiprocesso Rinascita-Scott che vede alla sbarra 329 imputati, nato dall’inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro diretta dal procuratore Nicola Gratteri, prosegue a ritmo serrato. Nell’aula bunker allestita negli stabili in disuso della Fondazione Terina a Lamezia Terme, il collegio giudicante presieduto da Brigida Cavasino con a latere i giudici Gilda Romano e Claudia Caputo ha oggi ascoltato le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Costantino considerato uno dei referenti della ‘ndrangheta in Piemonte.

Costantino: “Mamma voleva allontanarci dagli ambienti criminali”

Francesco Costantino, 57enne di San Pietro a Maida in provincia di Catanzaro, era un uomo dei clan trapiantati in Piemonte fino al momento in cui ha iniziato a collaborare con la giustizia “perché – afferma - non volevo che mio figlio entrasse in contatto con ambienti criminali”. Rispondendo alle domande del pm Antonio De Bernardo ha raccontato la trama di vendette, narcotraffico ed estorsioni che si snoda dalla Calabria al Nord Italia. “Sono cresciuto nella famiglia di Raffaele Cracolici perché aveva un terreno a Maierato vicino a quello dei miei genitori.

Ero sempre a casa loro, ci davamo una mano, eravamo amici. Mia madre voleva allontanarci da quella realtà e ci siamo trasferiti in Piemonte. Così non è stato perché a Torino la Calabria era dietro l’angolo. Mario e Francesco Cracolici erano a Novara, Nino Cracolici abitava a Milano insieme ad un altro fratello, in provincia di Torino viveva il nipote Domenico Cracolici, quindi Raffaele veniva a trovarci spesso. Quella dei Cracolici era una cosca a cui erano affiliati sicuramente tutti i fratelli/nipoti (Raffaele, Ciccio, Alfredo, Mario, Mimmo, Renato, Francesco, Umberto), l’unico estraneo a contesti criminali era Pino che faceva il pastore. Il clan oltre al narcotraffico lavorava sulle estorsioni nella zona di Maierato ed i proventi venivano spartiti con i Mancuso.”.

Cocaina tra Piemonte e Calabria sotto la supervisione dei Mancuso

“Le mie prime esperienze criminali – ricorda Costantino - sono iniziate mentre ero detenuto in carcere a Torino per un reato legato all’adulterazione di sostanze alimentari. Ero in cella con Giuseppe Campisi di Nicotera, punto di riferimento al nord di Peppe Mancuso (alias ‘Mbrogghia). Quando sono uscito dal carcere nel 1987 ho creato una società fittizia con Campisi attraverso un salumificio. Per dirimere le questioni più delicate ‘Mbrogghia veniva di persona infatti nel 1990 l’ho conosciuto a Milano quando un elemento di spicco dei Fiarè (clan di San Gregorio d’Ippona) non aveva pagato della droga a Campisi. Giuseppe Mancuso era una personalità a cui bisognava rendere conto.

Ho conosciuto invece Luni Mancuso (detto l’Ingegnere) a San Gregorio d’Ippona quando siamo venuti in Calabria per ritirare la cocaina da Domenico Campisi. Era questo il nostro canale d’approvvigionamento. Quando avevo bisogno in Piemonte compravo tipo mezzo chilo di eroina da Umberto Cracolici ed un etto di cocaina Francesco Cracolici. Era sempre lo stesso gruppo”.

L’omicidio di Raffaele Cracolici e la sete di vendetta: “Un obbligo morale”

“L’assetto dei clan – spiega il collaboratore di giustizia Francesco Costantino - è mutato quando i Cracolici sono entrati in guerra con la famiglia Bonavota di Sant’Onofrio per contrasti sorti nella gestione degli affari illeciti nell’area industriale di Maierato.

I dissidi hanno portato nel 2004 all’omicidio di Alfredo Cracolici e ad una sete di vendetta palesatemi da Raffaele Cracolici quando venne a Torino a dirmi che erano stati i Bonavota e voleva pareggiare i conti. Mi sono sentito in obbligo morale di assecondare la sua richiesta di aiuto. Dopo sei mesi andai con Francesco Cracolici ad appostarmi vicino ad un campo di bocce dove giocava l’”acquaiolo” l’uomo che aveva ucciso il padre Alfredo. Mi avevano detto che aveva un maglione azzurro, non lo conoscevo. Quando è entrato nel mirino del mio fucile, Francesco urlò di non ucciderlo perché non era lui. Ci fu un inseguimento tra noi e loro, furono sparati alcuni colpi, un gran caos. L’azione era fallita”.

Piccola geografia della ‘ndrangheta in Piemonte

“A Carmagnola – chiarisce Costantino - il clan egemone è quello creato dagli Arona che, insieme a Serratore proprietario di un bar a Moncalieri, allo pseudo-impresario del settore edile Antonino Defina dedito a truffe, ad Antonio Pizzonia gestore di una concessionaria d’auto, alla famiglia Cugliari e Francesco Pugliese sono in Piemonte i sodali dei Bonavota. La loro colonna portante era Di Leo: molto pericoloso, imbracciava le armi con facilità, non gli si poteva mettere i piedi in testa, ma era una persona disponibile tant’è che mi aveva detto che ci avrebbe aiutato a rivendere una tonnellata di hashish che ci era arrivata dalla Spagna. Mi disse che doveva tornare a Sant’Onofrio a risolvere un problema con i Bonavota e ne avremmo parlato al suo rientro, ma fu freddato a colpi di kalashnikov a Sant’Onofrio, non fece più ritorno in Piemonte.

Con Serratore ogni tanto collaboravamo: una volta mi diede una pistola e nel 2000 mi rifornì di stupefacente. La loro zona d’influenza in Calabria era Sant’Onofrio. Il boss era Pasqualino Bonavota che faceva la spola da Torino a Sant’Onofrio per gestire business ed eventuali controversie. Tra i tanti affari che avevano messo in piedi vi era quello delle truffe sui lavori di ristrutturazione delle concessionarie d’auto che venivano eseguiti dalle ditte di Defina, pagati dalla Fiat con importi gonfiati e poi i proventi illeciti erano spartiti all’interno della cosca”. Nel pomeriggio si è concluso il controesame del collaboratore di giustizia Francesco Costantino. Intanto, la Dda ha ieri terminato dinanzi al Gup Claudio Paris la propria requisitoria nei confronti di altri 91 indagati che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato.