Nuova udienza del maxiprocesso Rinascita-Scott, martedì 9 febbraio a Lamezia Terme, presso l’aula bunker allestita negli stabili della Fondazione Terina. Alla sbarra 329 imputati nel procedimento nato dall’inchiesta, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia diretta dal procuratore Nicola Gratteri, che conta ben 479 indagati.

Collaboratore di giustizia Umile Arturi: “Rifiutammo strategia tensione”

Il collaboratore di giustizia Umile Arturi, cosentino classe 1957, ascoltato in qualità di testimone ha risposto alle domande del pm Annamaria Frustaci ricostruendo la vicenda che vide Cosa Nostra chiedere supporto alla ‘ndrangheta dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio che videro perire i magistrati Falcone e Borsellino.

“Facevo parte del clan Pino – Sena di Cosenza, - ha spiegato Arturi – ero un uomo di fiducia di Franco Pino. Lui aveva i Beati Paoli, la carica più alta che possa avere uno ‘ndranghetista, io ero un gradino sotto. Sono stato condannato per più omicidi di cui mi sono assunto le responsabilità. Perna-Pranno era il gruppo a noi rivale nel corso della guerra di mafia. Fu uno scontro dove non ci sono stati né vinti né vincitori in quanto si è deciso di spartirsi il territorio e cessare il fuoco”. “I siciliani - racconta Arturi - volevano coinvolgere i calabresi in una sorta di strategia del terrore. Siamo andati con Pino su invito di Piromalli, Mancuso e Pesce, a parlarne in un incontro organizzato al villaggio di Nicotera”.

‘Ndrangheta, Arturi: “Era l’estate del 1992, c’era l’intera Calabria”

“Era l’estate del 1992, c’era l’intera Calabria. C’erano i fratelli Farao e Marincola detto Il cadavere di Cirò. Santo Carelli veniva per la sibaritide. Peppe Pesce di Rosarno. Pino Piromalli per Gioia Tauro. Franco Coco – spiega Arturi - catanzarese riferimento per i clan in Lombardia, operativo su Milano, legato ai De Stefano di Reggio Calabria da vincoli di parentela.

C’era tanta gente, una ventina di persone, non ricordo tutti. Luigi Mancuso, il più giovane tra i fratelli, era il leader della famiglia di Limbadi: era la persona più qualificata nelle decisioni criminali. Luigi Mancuso ci disse che i corleonesi guidati da Riina volevano da noi un appoggio negli attentati".

No alle stragi "anche se erano magistrati"

"Luigi Mancuso - riferisce il collaboratore di giustizia Umile Arturi - riteneva non fosse giusto perché sarebbero morte persone che non c’entravano niente anche se nel mirino erano quattro magistrati. Secondo lui era un cattivo affare, rischiava di portare in Calabria il casino che c’era in Sicilia. Lo scompiglio lo avremmo preso noi, togliendo ai siciliani le castagne dal fuoco. Era Riina che mandava i suoi emissari a sondare il terreno, i gruppi interessati erano i corleonesi e i Santapaola. La riunione si è svolta al villaggio Valtour, posto sicuro perché era ‘cosa’ di Luigi Mancuso, insomma controllato da lui”.

“Luigi Mancuso e Pino Piromalli – sostiene Arturi - hanno spiegato che i siciliani volevano da noi un aiuto stragistico per continuare la strategia di terrore nei confronti dello Stato in modo da poter arrivare a un compromesso e allontanare le attenzioni dalla Sicilia.

Ognuno ha espresso il proprio parere. Il gruppo Pino-Sena disse che non era interessato a questo progetto. Nel rifiutare la strategia della tensione l’unico indeciso era Franco Coco che poi si è unito alla decisione condivisa di non aderire. Il Crimine si riuniva una volta l’anno a San Luca, nel Cosentino poteva essere rappresentato da Pino, Sena e Carelli. Noi facevamo capo a noi stessi”.

Scambi di favori tra calabresi e siciliani

“Franco Pino aveva rapporti – dichiara Umile Arturi innanzi al Tribunale di Vibo Valentia - con il nipote di Santapaola che lo avvertiva quando una ditta della Sicilia a loro vicina veniva in Calabria per eseguire lavori pubblici. Gli amici dei Santapaola andavano trattati bene.

Un esempio. Una ditta di costruzioni che mi sembra lavorasse sull’autostrada, non è che non pagava, versava però solo il 2/3% anziché il 5/6%. Il favore veniva ricambiato quando nostre ditte andavano a lavorare in Sicilia. Anche alcuni omicidi che portammo a termine furono discussi con il clan De Stefano. Marcianò, loro affiliato, funse da tramite nel duplice omicidio a Scalea”. Un delitto per il quale il collaboratore di giustizia Umile Arturi ha già scontato la pena di 20 anni, ma in aula afferma di aver dimenticato le vittime: “Saffoti, qualcosa del genere, non so più neanche i nomi, ho rimosso tutto”.

Quel 6 agosto 1983 a Scalea, ricordano le cronache, dopo aver teso un agguato al boss reggino del rione Santa Caterina Giuseppe Geria e a Valente Saffioti, scese dall'auto per dargli il colpo di lupara finale.

Il collaboratore di giustizia cosentino Umile Arturi liquida con poche parole l’episodio emerso dal controesame: “Un favore che doveva essere ricambiato con l’uccisione nel carcere di Reggio Calabria di Franco Perna, nostro rivale. L’ergastolano designato all’agguato è stato trasferito, il clan De Stefano si è scisso ed il delitto è andato in fumo”.