Confluiranno negli atti del maxiprocesso Rinascita-Scott le dichiarazioni di 5 collaboratori di giustizia ormai deceduti. L'iter è stato avviato nel corso dell'udienza di lunedì 8 febbraio a Lamezia Terme. Nell’aula bunker allestita negli stabili della Fondazione Terina, quattro collaboratori (Giuseppe Vrenna, Umile Arturi, Pasqualino D'Elia e Luigi Farris) si sono avvicendati ai microfoni inanzi al collegio giudicante presieduto da Brigida Cavasino, con a latere i giudici Gilda Romano e Claudia Caputo. Alla sbarra 329 imputati nel procedimento nato dall’inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia diretta dal procuratore Nicola Gratteri.

Giuseppe Vrenna: “Affiliato a 17 anni”

Il collaboratore di giustizia 70enne di Crotone Giuseppe Vrenna, in collegamento dal sito riservato ha ricordato di aver iniziato a collaborare nel 2010. Sin da giovanissimo, ha raccontato, è stato inserito negli ambienti della criminalità organizzata: “Ho ricevuto la dote di ‘picciotto’ all’età di 17 anni”. Poi la scalata: camorrista, santa, vangelo ed infine l’ambito ruolo di trequartino. “Umberto Bellocco mi conferì, a voce, la dote di Vangelo nel carcere di Trani. Erano presenti Franco Muto di Cetraro e Mimmo Pompei di Isola Capo Rizzuto. Sapevo che Luigi Mancuso aveva ottenuto il crimine di San Luca. Sono figlio di Luigi Vrenna, ascoltavo i discorsi della società minore.

Della società maggiore, capeggiata da zio Peppino Vrenna, faceva invece parte mio fratello. Dagli anziani ho appreso che l’onorata società a Crotone era iniziata a nascere intorno alla fine degli anni Sessanta quando a Catanzaro il crimine era guidato da un tale Catanzariti che non aveva abbastanza uomini. Da noi ce ne erano.

Nella metà degli anni ‘70 la mia famiglia ha subito tanti arresti ed è subentrata la criminalità di Cirò. Dal 1990 al 2000 sono stato detenuto. Una volta scarcerato ho aperto una lavanderia industriale, mantenevo un basso profilo perché ero sorvegliato speciale. Ero comunque a conoscenza delle dinamiche criminali in corso. Noi non dipendevamo da nessuno.

Le altre zone dipendevano da Cirò. All’epoca il responsabile del locale era mio fratello, non c’era più una società, ma viene chiamato buon ordine”.

Collaboratore di giustizia Pasqualino D’Elia, condannato per 11 omicidi e 5 tentati omicidi

Il 58enne lametino Pasquale D’Elia, condannato per associazione mafiosa, 11 omicidi, 5 tentati omicidi ed altri reati, collabora con la giustizia dal 1996. Nell’aula bunker di Lamezia Terme, in videoconferenza, è il terzo collaboratore escusso nel corso dell’udienza dell’8 febbraio del maxiprocesso Rinascita-Scott. “Mi è stata conferita la dote di santa – racconta D’Elia - nel carcere di Cosenza nel 1993 da Peppino Pagliaro. La mia organizzazione operava soprattutto nel lametino e avevamo rapporti nel vibonese.

Sono stato affiliato nel 1982. Quello che comandava di più era Giuseppe Pagliaro. Quando siamo entrati in faida, con i Pagliuso ci siamo aggregati alla cosca Iannazzo, la famiglia dei miei cugini. Prima che venisse ucciso accompagnavo Santo Iannazzo a casa di Luigi Mancuso. Andavamo per pagargli la tranche di estorsioni che la nostra famiglia aveva riscosso. È uno stabile a più piani appena si entra a Limbadi, andavamo spesso. Imprenditori, geometri, ingegneri, le ditte che lavoravano nelle gallerie che passavano da Catanzaro davano una percentuale sui cantieri a noi. La famiglia Mancuso aveva rapporti con i Lo Bianco, i Pesce, i Bellocco, i Fiaré di San Gregorio, alcuni di Zungri”.

Collaboratore di giustizia Luigi Guglielmo Umberto Farris

Nato a Messina, Luigi Gugliemo Umberto Farris, è un testimone che ha iniziato a collaborare con la giustizia nel 1996. “Non ho mai riportato alcuna condanna” intende precisare. “Sono stato accusato – afferma Farris in videoconferenza dal sito riservato - di aver corrotto il direttore di una banca. Credo fosse la Cassa di Risparmio di Lamezia Terme. Sono stato assolto per non aver commesso il fatto. Ero accusato di avergli consegnato una valigia con 50 milioni di lire. Quando sono stato arrestato, le mie attività imprenditoriali sono crollate e mi sono dovuto rivolgere agli usurai della zona. In carcere avevo conosciuto diverse persone, tra queste Saverio Razionale.

Soggetti a cui mi sono rivolto per un prestito ed aprire un negozio a Catanzaro. I Tripodi, Vincenzo Barba, mi hanno dato del denaro e l’ho restituito. I Lo Bianco mi hanno invece espropriato la Sifal Srl, azienda che avevo a Vibo con mio cognato. C’erano i camion fuori che si portavano via tutto quello che c’era dentro perché mio cognato non aveva restituito un prestito. Ho quindi regalato un arredamento completo al genero di Lo Bianco perché si stava sposando la figlia saldando il debito e ho lasciato la società. Nel 1990 ho subito un pestaggio, mi hanno massacrato con delle bastonate dicendomi di tornare entro tre giorni con 30 milioni di lire. L’ho fatto, ho pagato e basta. Poi l’ho raccontato a Peppe Mancuso (‘Mbrogghia) che tempo prima era intervenuto per Tripodi dandomi qualche mese di ossigeno, però mi disse che non poteva intervenire. Porto ancora una ferita sulla fronte”.