Noto negli ambienti mafiosi come il “Boss della Versilia” e in carcere come la “Belva della cella 154”, Carmelo Musumeci, oggi uomo libero, è semplicemente il “reo redento” per molti concittadini. «La fine della mia pena era prevista il 31 dicembre 9999: tra quasi 8mila anni. Io sono l’eccezione che conferma la regola», parla così a Blasting News il primo ergastolano ostativo libero della storia.

Pur essendo nato in Sicilia nel 1955, la carriera criminale di Carmelo Musumeci è in Toscana, nella ricca Versilia, dove negli anni Ottanta è a capo di un'organizzazione criminale: rapine, spaccio di droga, tangenti e racket nelle bische clandestine portano il "clan Musumeci" a scontrarsi con un gruppo rivale, il "clan Tancredi".

Musumeci è arrestato nel 1991 per l'omicidio di Alessio Gozzani, dei Tancredi. È stato condannato all'ergastolo ostativo, che non prevede la libertà condizionale, i permessi premio, o la possibilità di uscire mai dal carcere. In prigione Musumeci si è laureato in Giurisprudenza e in Filosofia, con due tesi contro ergastolo e 41-bis e scrivendo anche dei libri. Nonostante l'ergastolo ostativo, gli è stata concessa la libertà condizionale nel 2018.

L’ex-fuorilegge, dopo 27 anni di galera e 5 di libertà condizionale, porta la sua lucida testimonianza e riapre il dibattito sull’annosa e mai risolta questione dell'ineliminabile connessione tra detenuti e organizzazioni criminali fuori dalle carceri.

Dottor Musumeci, lo sciopero della fame dell’anarco-insurrezionalista Alfredo Cospito contro il 41 bis è giusta per lei? E perché un cittadino dovrebbe appoggiare questa vostra battaglia?

«Perché a chi ama la vita va trasmessa solidarietà. Cospito ama la vita e non la vuole vedere appassire chiuso tra le mura di una cella tramite il regime di tortura “democratico” del 41-bis.

Il cosiddetto “carcere duro” nasce per non dare la possibilità ai boss mafiosi di comandare dalla prigione ma, si sa, un anarchico non ha alle spalle nessuna organizzazione, non dà e riceve ordini, è contro lo Stato e la mafia. Per un anarchico non ci sono poteri buoni. Cosa ci sta a fare allora in mezzo ai mafiosi? La criminalità organizzata è un potere che nasce dall’alto e io non ho mai visto un mafioso-anarchico o comunista.

Diciamoci la verità, il 41-bis, nato in via del tutto eccezionale, sta diventando la norma, e gli oltre 700 detenuti rinchiusi in quell’inferno non sono tutti boss ai vertici delle organizzazioni criminali, ma solo “carne da cannone”. Certi mafiosi di “spessore” non fanno reati, hanno la fedina penale pulita e vanno a messa la domenica».

Lei è il primo ergastolano ostativo libero della storia. Che cosa significa scontare l’ergastolo?

«Significa morire un po’ tutti i giorni e tutte le notti. L’ergastolo è una pena di morte a rallentatore. Ricordo che quando condividevo la cella con un detenuto la cui pena era subordinata alla scadenza di un termine, ogni mattina metteva una crocetta sul calendario, cosa che io non ho potuto fare per più di un quarto secolo.

Per un ergastolano che vive con la sola prospettiva di morire, senza una speranza, è insensato tenere il conto dei giorni che (non) passano. Vorrei ricordare che i rivoluzionari francesi nel 1789 abolirono la pena dell’ergastolo e mantennero quella di morte. Per i rivoluzionari era più umano tagliare le teste che condannare a vita una persona».

Perché secondo lei è anacronistico il “carcere a vita” nato durante le stragi mafiose?

«La verità è che lo Stato non vuole sconfiggere questi fenomeni ma cavalcarli. Per annientarli bisognerebbe conoscerli approfonditamente, però, mi rendo conto che, spesso, neppure i giudici ne hanno nozione. La mafia è soprattutto cultura e mentalità e va combattuta levandole in primis l’esercito che ha intorno, la cosiddetta carne da cannone, quella che abita al 41-bis.

Ma se chi sconta la pena torna a delinquere per il 70 per cento dei casi, significa che il carcere non ha funzionato né per il 70 per cento delle persone che ci ritorna e né per quel 30 che non ci torna più (per paura). E un cittadino non dovrebbe fare reati perché teme la detenzione, ma perché è sbagliato farli».

Se potesse cambiare l’istituzione carceraria, come la trasformerebbe, fermo restando che per lei ergastolo ostativo e 41-bis non sono i modi migliori per combattere la mafia?

«Chi fa del male va fermato, ma una volta ammanettato va migliorato. Una pena per funzionare deve rieducare e stimolare il senso di colpa. Che senso ha un 41-bis nel quale è vietato leggere libri e ascoltare musica?

Che senso ha un 41-bis che impedisce di tenere più di 10 fotografie in cella e vieta di accarezzare la propria mamma per 10, 20 o 30 anni, in uno spazio totalmente video sorvegliato e nel quale le eventuali gesta, pizzini o altro, verrebbero in tempo reale riprese della polizia penitenziaria e portate a conoscenza all’autorità giudiziaria? Che finalità rieducativa ha la pena accessoria dell’isolamento diurno tesa ad aggravare la già crudele detenzione di un ergastolano? Vorrei ricordare che quando fui sottoposto al regime di detenzione duro 41-bis all’Isola dell’Asinara, detta anche “l’Isola del Diavolo”, mi portarono nella sezione isolamento e chiusero il blindato e lo spioncino per un anno e sei mesi.

Stavamo serrati 23 ore su 24 in una cella che misurava tre metri di altezza e due di larghezza. Le guardie usavano scudi in plexiglass e manganelli. Mancava l’acqua potabile e i topi erano dappertutto. Uno di loro divenne mio amico. Lo avevo addomesticato e l’avevo chiamato Tom».

Ironico?

«Un po'! Era diventato così grosso che dava la caccia ai gatti dell’isola. La verità è che al 41-bis non vivi ma sopravvivi, ti riduci a una larva, a giocare perfino con le formiche. Anche quando hai finito la pena ti senti come un reduce di guerra. La lotta è finita, ma non nella tua testa. Nessun delinquente è mai cambiato per effetto di trattamenti inumani e degradanti. Io sono una specie di fallimento per il sistema penitenziario perché non è riuscito a peggiorarmi».

Si sarebbe mai aspettato di uscire dal carcere?

«Mai. Ero sicuro che dalla prigione sarebbe uscito solo il mio cadavere. Ho pensato tante volte di togliermi la vita. Forse molti non sanno che il metodo che normalmente usa un prigioniero per farla finita è semplice. Prepara una fune, che può essere presa dalla cintola dell’accappatoio o direttamente dalle lenzuola. Poi forma il cappio. E lo fa passare attorno alle sbarre della finestra. Sono felice di non aver mai fatto scivolare quel laccio sul mio collo. Non credo ai miracoli, però ci speravo».

È stato graziato. Come ha fatto a uscire?

«In carcere i miei punti di riferimento non sono mai stati il direttore, l’educatore o la magistratura, il mio segreto sono state le relazioni sociali.

Persone come Margherita Hack, prima firmataria per l’abolizione della pena dell’ergastolo, Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, e la Casa Famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, mi hanno dato affetto sociale e visibilità. Lo studio gli strumenti. I miei familiari la forza e l’energia. Non ho mai puntato sulla buona condotta. La galera non vuole che si diventi buoni ma solo che si faccia i buoni. Mi sono rifiutato di fare il buono, ma ho cercato di diventarlo. Il carcere è il posto più legale che ci sia e sono convinto che anche San Francesco si sarebbe ribellato a una pena più disumana della morte. Molti mafiosi arrivano dentro le mura di cinta già istituzionalizzati perché sono abituati a obbedire ai loro boss.

Non si rivoltano, ma questo atteggiamento è deleterio perché di fronte all’illegalità è doveroso reagire. Ma attenzione, in modo pacifico, usando la penna, reclamando».

Perché durante la sua permanenza in carcere la chiamavano la “belva della cella 154”?

«Le guardie hanno iniziato a chiamarmi così, dopo i miei reclami e le mie istanze. Sono entrato in prigione con la licenza elementare e durante i 27 anni di detenzione sono arrivato a conseguire tre lauree. Una volta acquisiti gli strumenti della mia amata giurisprudenza, ho cominciato a difendere non solo i miei diritti ma pure quelli dei miei compagni. I direttori mi mandavano nelle celle di rigore o mi trasferivano da un carcere all’altro per liberarsi di me.

D’altra parte un prigioniero che studia, legge, scrive e chiede rispetto della legalità diventa un pericolo per il quieto vivere; d’intralcio, ingombrante».

Qual è il suo stato d’animo dopo 27 anni di galera e 5 di libertà condizionale?

«Sono libero da appena sette mesi e mi sento ubriaco di felicità. Mi rendo conto, però, che dopo una lunga pena anche la gioia è una condanna. La contentezza è difficile da gestire perché il carcere, essendo un mondo di morti e ombre, ti abitua alla infelicità. Sembra di uscire da una tomba e, una volta fuori, devi imparare di nuovo a vivere. Per più di un quarto di secolo ho visto solo muri e visi tristi e, adesso, riesco ad apprezzare il sorriso di un bambino, il profumo di un fiore e il colore del cielo.

Rinascere si può, anzi si deve. E io, la mia nuova nascita, la devo anche a quei 1700 ergastolani che, a differenza mia, moriranno dietro le sbarre».

Si sente in colpa per questo?

«Sì, perché l’ergastolo ostativo con la nuova legge è diventato di nuovo ostativo. Con le recenti disposizioni non avrei mai potuto uscire di galera. Oltretutto, ora, bisogna dare prova (diabolica) che in futuro il detenuto non commetterà più reati. Ma come si fa a dimostrare una cosa del genere?».