“Questo libro parla dei chilometri fatti ma anche dei chilometri che verranno. Perché lo sport è la mia vita e penso di averne appena inaugurato un nuovo capitolo”. Sono queste le parole con le quali Sara Dossena arrivata sesta su 53mila partecipanti alla maratona di New York, decide di brindare al suo libro di fresca data intitolato “Io, Fenice”. E lo fa a cinque mesi di distanza da quella corsa che le ha permesso di guadagnarsi l’agognato pass d’ingresso nell’Olimpo dei top runner. Una linea di arrivo che le ha concesso la chance di afferrare finalmente il suo sogno di bambina: diventare una campionessa.

E allora, perché non metterli per iscritto i passi di questa maratona, che poi è la maratona di una vita? Perché non celebrarla con la prefazione di due che la sfida della Grande Mela ce l’hanno nel sangue? Linus di Radio Deejay e Orlando Pizzolato, vincitore per due volte della sua New York New York e direttore di Correre? Mentre Linus giura di essersi appassionato alla fuoriclasse vedendola sgambettare sfrontatamente con i suoi calzettoni colorati tra i grattacieli di Manhattan davanti al gruppo delle migliori al mondo, Pizzolato nella Dossena, ci si è totalmente identificato: “Immagino cosa pensavi, Sara, ci sono passato anch’io, un’euforia quasi “malsana”, perché temi di azzardare troppo, ma le gambe scappano avanti e tu devi rincorrerle”.

Il tuo libro s’intitola “Io, Fenice”. Tu, un’araba fenice. Siamo tutti delle piccole fenici. Io la mia araba fenice ho deciso di stigmatizzarla sulla mia pelle, di tatuarla e renderla indelebile perché la fenice è un animale che mi ha sempre affascinato. È un animale che risorge dalle ceneri ed io, proprio come una fenice, sono morta e risorta tante volte.

Scrivere un libro per certi versi è una maratona, è un desiderio che si realizza. Perché la maratona e perché un libro? Correre la maratona di New York è sempre stato il mio sogno nel cassetto. Fin da bambina amavo guardare le gare in TV e identificarmi nelle campionesse anche se mi ripetevo spesso che di bambine che sognavano ad occhi aperti davanti a uno schermo, era pieno il mondo.

E pian piano ci sono arrivata per davvero dentro quel sogno. Per quanto riguarda il libro, è già da un po’ di tempo che mi balenava per la testa l’idea di mettere per iscritto la mia storia, le mie sensazioni, le mie cadute e le mie risalite. Non è stato facile (anche per una questione d’impegni) ma grazie all’aiuto di Francesca Grana, la giornalista che mi ha aiutato a scrivere le pagine della mia vita, ci sono finalmente riuscita. Anche Maurizio Brassini, il mio allenatore, ha partecipato alla stesura del libro.

Le fenici hanno piume rosse come le passioni e dorate come i sogni. Ci sono voluti sedici anni prima che potessi realizzare i tuoi. All’inizio i sogni sono spesso sogni inconfessati, come quello di diventare protagonista di una gara importante, un desiderio che mi porto dentro dall’età di sette anni.

Da grande, però, non avrei voluto fare la maratoneta ma l’atleta. Volevo diventasse il mio lavoro. Allora, ero solita chiedere ai miei genitori quali fossero i corsi da seguire per diventare una campionessa. Loro, non essendo sportivi, tergiversavano sempre. Mi dicevano che avrei dovuto iniziare molto prima, oppure m’iscrivevano a sport di squadra pensando che mi sarei divertita di più. Il fatto è che gli sport di squadra non mi sono mai piaciuti perché il risultato non dipende dalla sottoscritta ma dal gruppo. Ecco, che per vari motivi, il più delle volte infortuni, non ho mai potuto imbattermi nella sfida che più mi stava a cuore.

Una maratona blindata

Hai iniziato tardi con l’atletica, a diciassette anni.

Il tuo primo allenamento cade proprio l’11 settembre 2001, il giorno dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle. Casualità o sincronicità, visto che la tua prima maratona l’hai inaugurata proprio tra quei grattacieli? Casualità, non credo alla sincronicità degli avvenimenti, seppur la maratona del 5 novembre 2017, è stata per davvero una maratona blindata. La causa? Un presunto attacco terroristico. Ovunque mi girassi la domanda era: come stai vivendo il terrorismo? La mia risposta: non si può sempre vivere nella paura! Sopra New York si era abbattuta una vera e propria cortina mediatica fatta di terrore.

Linus, ha dedicato alla tua autobiografia queste parole: “Scrivere un libro è utile per fermare le parole su un pezzo di carta, serve a noi per sognare a lei probabilmente per capire”.

Che cosa dovevi comprendere? Ha ragione Linus, tante volte le parole si dissolvono ed è per questo che è bene metterle nero su bianco. Ammetto che non è sempre stato semplice rivangare il passato poiché i momenti brutti cerchi di cancellarli. Anche se crescendo, ti accorgi che la vita di ognuno di noi è tratteggiata da ombre ed è stata questa la spinta che mi ha convinto a svelare le mie fragilità. Questo libro è servito a me, e spero servirà anche a chi lo leggerà, fosse solo per identificarsi. D’altronde abbiamo tutti una storia di rinascita da raccontare.

Per una Sara convinta di non essere mai stata tagliata per l’atletica, che cosa significa avere trionfato in 2 ore, 29 minuti e 39 secondi alla 42k?

Non posso dire di essere veramente soddisfatta, potevo fare molto di più, soprattutto a livello cronometrico, ma è stata un’emozione talmente forte che va bene lo stesso. Del resto, il mio sogno, era quello di partecipare alla maratona divertendomi e così ho fatto. E’ stata questa la mia più grande vittoria. Certo, non è stato facile gestire quell’ondata d’ansia scatenata dell’attenzione mediatica (soprattutto social) che una maratona così prestigiosa ha convogliato attorno a me e alle altre 53mila persone in gara, ma sono felice di essere riuscita a gestirla nonostante i mille inconvenienti.

La filosofia di New York la paragoni a una “corsa senza aiuti e senza lepri. Loro cercano l’imprevisto, lo spettacolo e la sfida degli atleti fianco a fianco” La maratona di New York è una gara tattica tanto è vero che siamo partiti molto piano, non la si corre per battere il tempo, la si corre per vincere.

Di solito le lepri sono le persone ingaggiate per darti il ritmo e a New York questa cultura non c’è; ognuno corre per sé, ognuno corre per aggiudicarsi la vittoria, senza lepri e senza aiuti.

Si parla tanto del muro del 30esimo chilometro, il muro sul quale si sarebbe infranto il sogno di arrivare al traguardo. Quel muro lo hai visto? Quel muro fortunatamente non l’ho incontrato ma me ne avevano parlato però. Quest’aneddoto era arrivato persino alle orecchie dei miei genitori. Si erano preoccupati moltissimo

Una volta a Central Park

Qual è il clima che si respirava una volta entrata in Central Park, lungo le transenne? Mi sembrava di essere all’interno di una grande bolla. L’atmosfera era elettrizzante.

Non ricordo nessun punto in cui non vi fosse il tifo. Solo al 25simo chilometro, sul ponte del Queensboro, il tifo si era placato. Una condizione provvisoria, poiché di lì a poco ci saremmo imbattuti nella First Avenue, un lungo rettilineo di circa cinque chilometri con migliaia di persone che lo costeggiavano esultando. Central Park invece è il pezzo finale della maratona. “Ricordo gente che urlava, poliziotti che bisbigliavano nel walkie talkie, energumeni della sicurezza che fulminavano con lo sguardo”. Un vero e proprio delirio.

Molti maratoneti la vorrebbero chiusa al pubblico. Come hai vissuto quel roboante girone dantesco lì a fare il tifo per te e per voi? Ti aiuta. Ovviamente è una maratona con tanto incitamento ma quando sei molto stanca, anche il tifo passa in secondo piano.

A quel punto sei completamente concentrato sulla fatica.

La parte più faticosa della 42k? Central Park, a causa dell’altimetria. “Central park non perdona. Gli ultimi dodici chilometri non perdonano. Tutta New York non perdona”.

E quando le gambe erano stanche, a portarti avanti erano testa o cuore? Entrambi. Le gambe a un certo punto ti abbandonano.

Qual è stato il vero carburante? Il sorriso. La maratona di New York è stata la mia prima maratona, quella del cuore, e volevo finirla con il sorriso. Solo una volta mi è venuto a mancare, i venti secondi dopo l’arrivo, quando mi sono detta mai più! Al trentesimo secondo avevo già cambiato idea, avrei voluto correrne un’altra.

La fatica. Anche lei è magia

Linus è convinto che la maratona sia una malattia che arrivi con l’età adulta poiché è difficile innamorarsi della fatica quando si è ragazzi. Da ragazza, che cosa ne pensi? Dico che sono sempre stata innamorata della fatica. E che della fatica ci si può innamorare anche da giovani.

La fatica ti fa paura oppure anche lei è magia? La fatica fa sempre paura, l’importante è attraversarla. Che fatica!

Sei molto competitiva. Come vivi questo continuo essere in lotta con i tuoi limiti? Competere per me è un bisogno, un istinto, qualcosa che non posso spiegare razionalmente. Il confronto per me è vita. Combattenti si nasce.

In un’intervista hai detto: “Alcune donne nelle gare di triathlon sembrano uomini”.

Alludevi al doping? Sì, ma non voglio accusare nessuno. Mi sono trovata a gareggiare con persone che avevano il triplo delle mie gambe. A ogni gara ci sono controlli a sorpresa ma è anche vero che purtroppo il doping è sempre più avanti dell’antidoping.

Ancora hai puntellato: “Ho visto atlete abbuffarsi e poi mettersi due dita in gola e vomitare”. Anche nel tuo libro parli di quanto l’alimentazione sia un capitolo critico nella vita di ogni atleta. Molti colleghi non hanno un rapporto sano con il cibo ma questo accade sia nell’atletica sia nella vita comune.

A proposito di donne, la fenice è simbolo del femminile. Come vivi la tua femminilità? Oltre che atleta amo sentirmi donna. Quando mi alleno, mi piace indossare completi carini. Un filo di matita e un po’ di smalto alle unghie non manca mai.

Il sogno di correre in nazionale alle Olimpiadi di Tokyo nel 2020, è sempre più forte? Più che un sogno è un obiettivo che sto costruendo giorno dopo giorno. Speriamo di riuscire a realizzarlo.

mondiale storia