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Islam e rinnovamento, l'esperienza indonesiana

Dall'altra parte del mondo, in luoghi più esotici, Muhammad Darwis, un giovane della middle class di Giacarta che ha studiato alla Mecca ed era già stato investito da un vento di cambiamento che spirava dall'Egitto, lavora presso il Palazzo del sultanato. Il suo Paese è sotto il governo coloniale olandese, dal quale si affrancherà nel 1949. Egli sembra prendere coscienza della condizione di estrema indigenza in cui versano gli abitanti locali, nella stragrande maggioranza musulmani, a causa di sfruttamento, ignoranza, superstizione.

La religione del Profeta, egli denuncia, è stata “corrotta” nel tempo da pratiche magico-mistiche che nulla hanno a che fare con i precetti del Qu'ran, ma semmai hanno radici lontane, nelle culture tradizionali pre-islamiche.

Occorre riformare l'Islam indonesiano, lucidarlo come una preziosa lampada per farne splendere l'antica perfezione. Via le contaminazioni “politeiste”, via anche le lusinghe di “sette” islamiche dal respiro cosmico come i Sufi – la cui adorazione per il fondatore è in odor di idolatria per la dottrina coranica. Allo stesso tempo, Muhammad si adopera per riformare il sistema scolastico, in maniera capillare, nei tanti villaggi attorno alla capitale, sul modello delle scuole aperte dai missionari (protestanti), insegnando e predicando lui stesso fino a raccogliere attorno a sé un crescente numero di consensi.

Le sfide del nuovo millennio

Un secolo più tardi le sfide sono diverse, nuove, e ciascuno fornisce le proprie risposte secondo i propri criteri. L'Europa si affatica alla ricerca di se stessa; se la si dovesse ritrarre iconograficamente ora, le sarebbe più confacente il volto ligneo della Merkel o le sembianze della giovane scalpitante rapita da Zeus per i suoi divini piaceri?

Anche il mondo musulmano si interroga, dai Paesi africani teatri di tante “primavere” ai luoghi di confine come l'Iran, la Siria, la Turchia che hanno dovuto prendere posizione (politica, strategica e ideologica) contro l'espansione di un autoproclamato Stato islamico.

L'Islam “progressista” sembra non avere dubbi: per essere un partner credibile sul tavolo delle mediazioni globali, per ottenere e mantenere il rispetto che la religione del Profeta merita, occorre abbandonare una visione obsoleta dei meccanismi del mondo e abbracciare un respiro più ampio, che in primo luogo passa attraverso il riconoscimento della sovranità dello Stato nazionale rispetto alle scelte dei singoli individui in fatto di fede: una invocata “libertà di religione” in nome della libertà di entrambe le parti.

Attualmente, lo Stato indonesiano riconosce sei religioni “ufficiali” (Islam, Protestantesimo, Cattolicesimo, Induismo, Buddismo e Confucianesimo) e ciascun cittadino è tenuto ad appartenere a una di queste. Un compromesso non facile da accettare per posizioni meno concilianti: la sharia è la legge del Profeta, così come tramandata dal Corano e quindi indiscutibile, e riguarda sia la sfera del “sacro” (precetti rituali, preghiere, ecc.) sia quella del “civico” (che l'Occidente riconosce nella legge dello Stato).

Quelli che viviamo come "attacchi" all'Occidente secondo la ben nota “strategia della paura", sono il tentativo di alcune frange islamiche di imporre la sharia agli “infedeli”. Di contro, le voci “moderniste” di movimenti come il Muhammadiyah indonesiano promuovono una lettura non necessariamente letterale della Scrittura, e una prospettiva che punti a ravvivare il “fuoco” dell'Islam (la sostanza) piuttosto che ricoprirlo di “ceneri” (la mera forma). Non resta che augurare a tutti buon lavoro, e buona fortuna.