L'idea è semplicissima: solo una piccola telecamera nascosta nel cruscotto, il regista alla guida e la vita che scorre per le strade di Teheran, ricostruita grazie alle storie dei clienti di un taxi, vera e propria istituzione metropolitana, luogo di scambio di umori e opinioni in una città ribollente di desideri e contraddizioni. Racconta così la sua Teheran Jafar Panahi, ma il suo film è molto più che il ritratto esuberante di una società piena di acuti e contrappunti dolceamari: allievo di un mostro sacro del Cinema universale come Kiarostami, autore di opere quali 'Il cerchio' (premiato al festival di Venezia con il Leone d'Oro nel 2000), 'Offside' (Orso d'argento a Berlino nel 2006) e 'Oro rosso', mai distribuito in patria a causa della censura, il regista è stato arrestato nel 2010 con l'accusa di opposizione al regime e propaganda anti-islamica, condannato a sei anni di reclusione e interdetto a lasciare il paese e girare film per vent'anni.

Il suo 'Taxi Teheran', vincitore dell'Orso d'oro all'ultimo festival del cinema di Berlino, nelle sale da giovedì 27 agosto, è allora, prima di tutto, un luminoso esempio di militanza condotta attraverso l'arte, atto di insubordinazione a ogni forma di repressione in nome della profonda convinzione che il cinema sia ancora strumento privilegiato di ricerca esistenziale e dispensatore di senso, risposta a tutte le domande sulla vita, la Storia e la condizione umana. 

Pensato come un gioco di specchi tra verità e finzione, 'Taxi Teheran' continuamente interroga lo spettatore su quale sia il confine tra queste e se sia possibile delimitarlo.

L'irruzione di brani di vita vera, pulsanti nella loro nuda attualità, nella sceneggiatura confonde i piani di una lettura sospesa tra documentario e narrazione, una lettura che trova il suo momento risolutivo nell'entrata in scena della nipotina del regista: la bambina chiede allo zio di spiegarle come fare un film nella Repubblica Islamica dell'Iran e, più o meno consapevole, finisce per fare la più azzeccata delle analisi sociali: il regime che prepara il terreno alle storture della società è, poi, lo stesso che non vuole per nessuna ragione vederle rappresentate nei film.