Il 1° febbraio esce nelle sale italiane il nuovo film di Steven Spielberg, THE POST, acclamato pressoché unanimemente dalla critica e già candidato nelle categorie Miglior Film e Miglior Attrice Protagonista ai prossimi Oscar. Potrebbe sembrare il tipico “successo annunciato", vista la presenza di due mostri sacri del calibro di Meryl Streep e Tom Hanks e la conoscenza del mestiere, ormai ampiamente dimostrata, del creatore di E.T., Indiana Jones, nonché dei più “seriosi” Schindler’s List, Il colore Viola, Salvate il soldato Ryan (giusto per citarne alcuni).

Le aspettative, per quanto possano essere alte, non saranno deluse: THE POST merita ampiamente l’accoglienza positiva che gli è stata riservata in ogni dove, ed è una riprova ulteriore della capacità in cui davvero eccelle Spielberg, il saper (ben) raccontare una storia.

La trama

La storia in questione è ispirata a fatti veramente accaduti: siamo nel 1971, e il New York Times riesce ad imbroccare uno scoop straordinario pubblicando parte di una serie di documenti segreti fotocopiati qualche anno prima dall’analista militare Daniel Ellesberg. Il materiale scottante costituisce la prova che il governo americano fosse da tempo al corrente dell’impossibilità di vincere la guerra del Vietnam, ma che lo abbia tenuto nascosto per evitare l’umiliazione di ammettere la sconfitta.

Per soffocare lo scandalo, la Casa Bianca fa pressione sulla magistratura per impedire l’ulteriore pubblicazione dei restanti “Pentagon papers”. Col Times impossibilitato a continuare, entra in gioco il Washington Post, che grazie alla tenacia del direttore Ben Bradlee (Tom Hanks) e del suo giornalista Ben Bagdikian (Bob Odenkirk), riesce a risalire alla fonte e ad entrare in possesso degli stessi documenti.

A questo punto entra in scena (nel film forse più che nella vita vera) il conflitto interiore di Katharine Graham (Meryl Streep), a capo del POST a causa della prematura morte (per suicidio) del marito e non (troppo) per volontà sua – o di qualsiasi altro membro del consiglio di amministrazione.

Abituata ad essere trattata come se fosse trasparente, prima dal padre che preferisce lasciare l’eredità del giornale al marito, poi dal marito stesso, che la relega al ruolo di accudimento-figli/accudimento-ospiti dei loro cocktail party, infine dal resto dei dirigenti, che non la ritengono qualificata come capo della testata, Katharine/Meryl Streep tentenna a lungo prima di prendere una posizione. Decidere di acconsentire alla pubblicazione, infatti, per lei significherebbe, nell’ordine: rischiare di perdere l’appoggio delle banche, nel momento in cui il POST, per sopravvivere, si sta facendo quotare in Borsa; rischiare di perdere, di conseguenza, il giornale di famiglia; quasi sicuramente perdere l’amicizia che la lega da lunga data a McNamara, il segretario alla Difesa pesantemente coinvolto nell’insabbiamento della verità sul Vietnam; possibilmente perdere la sua libertà, finendo in prigione per aver reso noti segreti di stato.

Insomma, un carico di dubbi vari ed eventuali che paralizzerebbe gente ben più intraprendente ed animata dal sacro fuoco della passione per il giornalismo di quanto non sembri questa signora dell’alta borghesia di Washington, occupata ad intrattenere relazioni amichevoli coi potenti ma timorosa ed intimidita dal maschilismo che la circonda al punto da zittirsi costantemente.

Il reale centro della storia che Spielberg sceglie di narrare è proprio lei. Non l’intrigo politico, non la figura dell’eroico “delatore”, Daniel Ellesberg, che rimane sullo sfondo, non – o quantomeno, non solo – il mondo del giornalismo in uno dei suoi momenti più epocali e gloriosi (anche se lo sguardo dello stagista davanti al palazzo del New York Times è di una tale emozionata ammirazione da risultare commovente).

È Katharine il personaggio che vediamo cambiare nel corso degli eventi: lo stesso Ben/Tom Hanks si limita a fungere da spinta per il suo cambiamento, e successivamente (grazie ad un’altra donna, sua moglie), a rendersi conto della portata del cambiamento da lei fatto, e quindi dal coraggio che ha avuto nel farlo. Nell’America post- Weinstein, un film incentrato su di una donna in un mondo di uomini che non riconoscono il suo potere, e che nondimeno sceglie di fare ciò che la maggior parte degli uomini che la circondano non avrebbe il coraggio: “do the right thing”, fare la cosa giusta

I lati positivi del film

Molti. La bravura indiscussa degli attori: una strepitosa Meryl Streep che raggiunge il suo apice nel momento magistralmente reso della concitata decisione finale (pubblicare, sì o no), con il via vai di persone che si affolla intorno a lei e che partecipa alla discussione tentando di influenzarla, ognuno parlando da un’estensione diversa dei vari telefoni sparsi per casa.

Quando ormai sembra evidente che gli uomini siano riusciti ancora una volta a convincerla alla prudenza, e quindi si rasserenano, lei se ne esce fuori con un “However…” dall’intonazione talmente magistralmente resa da diventare uno spot vivente a favore della visione dei film in versione originale (perché difficilmente potrà essere riprodotto in modo accettabile da un qualsiasi doppiaggio). Altrettanto in parte Tom Hanks, che fornisce con la sua intraprendenza, smania di fare e tendenza a correre (comune ad altri giornalisti nel film, una volta la cronaca richiedeva evidentemente anche doti di stacco) un valido contraltare alle titubanze e cautele della Katherine pre-cambiamento.

La bravura indiscussa del regista, che con mano sapiente crea un’opera dal montaggio preciso, con un ritmo che varia a seconda della storia, con un’economia di immagini per cui non ci sono scene “di troppo”, ma giusto quelle che devono esserci; in breve, con la sua capacità di dare vita ad un esempio di cinema classico ben congeniato.

Il focus, sottilmente portato avanti, sulla difficoltà per una donna in gamba di farsi ascoltare e il rispetto che gliene deriva, nonché la stima e il supporto delle altre donne, in pratica il modo di Spielberg di dare il suo contributo al tema del momento, senza però renderlo troppo esageratamente un aperto manifesto.

Le battute opportunamente disseminate, o le contro-scene come quella della figlioletta di Ben/Tom Hanks che vende a caro prezzo la limonata, approfittando dell’assembramento di giornalisti ed avvocati nella casa del padre. Guizzi di umorismo inaspettati, che suscitano risate (a volte anche fragorose) in sala.

I lati negativi

A volere fare proprio quelli che guardano il pelo nell’uovo, qualche lieve eccesso derivato dalla stessa immensa bravura degli attori, che li spinge a volte a dare esercizio di stile forse un filo troppo sottolineato: i mezzi sospiri, le mezze frasi e – soprattutto – l’imbranataggine reiterata di Katherine/Meryl all’inizio del film, che tira giù sedie quando entra in una stanza, abbassa gli occhi peggio di un’educanda in più di un’occasione, e fa venir voglia di passarle a più riprese il sacchettino di carta per respirarci dentro e tentar di riprendersi ogni qualvolta incrocia un uomo (non troppo credibile per una donna dell’alta società); oppure il tirarsi su i pantaloni o le maniche della camicia ed un certo modo di parlare di Tom Hanks, con un surplus di caratterizzazione che fanno a tratti caricatura di “direttore-di-giornale”, alla J. Jonah Jameson del Daily Bugle di Spider Man.

L’aspetto epico, tipico di una certa tendenza a lasciarsi andare alla retorica di Spielberg, che sottolinea il periodo d’oro del giornalismo, la sua integrità e la sua ricerca di verità, in evidente contrasto con l’era attuale: memorabili, in questo senso, le sequenze delle rotative e la citazione della frase-motto del Washington Post, attribuita al defunto marito di Katherine, la notizia è “first rough draft of history” (la prima bozza della storia). Emozionanti per molti, possono ad altri parere un po’ troppo enfatici.

La musica, francamente alquanto anonima: non ci si aspettava niente che distogliesse l’attenzione in modo eccessivo, ma un minimo di personalità in più avrebbe forse fatto fare un salto in più a quello che resta, comunque, un gran bel film nel complesso.

Bilancio totale

Positivo: forse non da gridare al capolavoro, ma sicuramente ben fatto, emozionante, di quelli che ti fanno uscire soddisfatto/a dalla sala cinematografica.

E non è poco.