Siamo alle ultime battute per quel che riguarda la conclusione degli accordi tra Governo e sindacati circa l’Ape, anticipo pensionistico, che consentirà di anticipare l’uscita dal mercato del lavoro di un periodo variabile per un massimo di 3 anni e 7 mesi sui requisiti di vecchiaia rispetto ai 66 anni e 7 mesi della riforma Fornero. La misura, in fase inizialmente sperimentale, riguarda per il 2017 solo i lavoratori nati tra il 1952 e il 1954 e prevede l’uscita anticipata a fronte di una pensione ridotta: la pensione viene quindi decurtata in misura variabile in relazione agli anni di anticipo, decurtazione che però verrà attuata per i lavoratori usurati.

In ambito scolastico, il riconoscimento di “lavoro usurante” è stato ottenuto solo per i docenti della Scuola dell’infanzia, decisione auspicabile da un lato ma che non manca di suscitare qualche perplessità.

Pensione, quasi 4 anni prima ma col 25% in meno

Con l’Ape sarà quindi possibile anticipare l’entrata in pensione fino a un massimo di 3 anni e 7 mesi: in questi casi però i lavoratori che opteranno per l’anticipo massimo dovranno rinunciare ad una quota di pensione per un importo di circa 200 euro al mese per vent’anni, con la condizionale che, in caso di prematura scomparsa, la rimanenza mancante non ricadrebbe sugli eredi ma sarebbe versata dall’assicurazione (anche questa a carico del beneficiario).

Il calcolo è stato effettuato ipotizzando l’anticipo massimo che prevede una quota del 20-25% in meno ogni mese di pensione, ma per chi ad esempio opterà per anticipare il pensionamento di un solo anno la decurtazione si aggirerà attorno al 5-6%.

Usurante è la scuola, non solo dell’infanzia

A tale meccanismo sfuggiranno tuttavia i lavoratori dei cosiddetti “lavori usuranti”, categoria che ha di recente ha visto inserire nel novero di tali lavori anche la professione di docente di scuola dell’infanzia. Una decisione importante, che seppure prende atto dell’effettiva difficoltà di avere a che fare con sezioni sovraffollate e con bambini nella fascia d’età tra i tre e i cinque anni (con ciò che ne consegue per quanto riguarda dispendio energetico e fattori di rischio per l’incolumità propria e dei bambini) non può che suscitare l’invidia e un pizzico di risentimento da parte degli altri colleghi che, seppur non nelle medesime condizioni, si devono comunque confrontare nel corso della loro carriera, con difficoltà di altro genere, ma forse non meno “usuranti”.

Davanti a questa disparità di trattamento che genera figli e figliastri, incerta appare la posizione dei sindacati e al momento in cui si scrive solo l’Anief sembra aver suscitato obiezioni sulla vicenda: fatto salvo che i docenti della scuola dell’infanzia sono tra i più a rischio burnout, “è l’insegnamento intero a comportare patologie e stress, quindi, anche per chi insegna nella primaria e secondaria. Se, invece, a decidere per la vita delle persone devono continuare a essere le coperture indicate dal Mef, - continua la nota - allora è meglio che lo dicano subito”.