Approfondiamo il punto di vista sindacale in merito alla riforma previdenziale ed ai provvedimenti di flessibilità in uscita dal lavoro emersi dall'accordo siglato con il Governo lo scorso settembre attraverso un'intervista a Roberto Ghiselli, Segretario Confederale Cgil.

L'intervista a Roberto Ghiselli

Partiamo dalla Fase 1 della Riforma previdenziale. Dopo la firma dei primi due decreti su APE sociale e Quota 41 la situazione sembra poter finalmente fare dei passi in avanti, anche se con diversi limiti: quali sono le questioni ancora irrisolte secondo la Cgil?

Le principali criticità da noi evidenziate e non risolte sono che non possono accedere ai benefici dell’Ape sociale o del pensionamento anticipato per i precoci i disoccupati per motivi diversi dal licenziamento, ad esempio per scadenza di un contratto a termine, e chi non ha maturato il diritto all’ammortizzatore sociale.

Abbiamo poi ritenuto insufficiente aver portato la continuità lavorativa nelle attività gravose a 6 anni negli ultimi 7. Noi avevamo proposto 6 su 8 o 7 su 10. Altro elemento critico che precluderà l’accesso ai benefici a molti addetti a lavori gravosi, soprattutto donne ed edili, è il limite contributivo di 36 anni. Inoltre sono poche le mansioni che vengono considerate gravose: rimangono fuori, ad esempio, la maggior parte dei settori manifatturieri, i lavoratori agricoli, i marittimi, gli infermieri non ospedalieri e molte altre professioni sanitarie con lavoro organizzato a turni. Per i lavoratori precoci, ricordiamo che per la Cgil rimane immutato l’obiettivo dei 41 anni senza altri vincoli.

Riguardo i decreti per l’APE volontaria e le altre misure di flessibilità, si resta ancora in attesa dei riscontri definitivi. Ritiene che questi ritardi possano avere un impatto sull’efficacia complessiva dei provvedimenti?

Abbiamo sin dall’inizio considerato l’Ape volontaria uno strumento non idoneo a favorire la flessibilità in uscita perché il suo onere è completamente a carico del lavoratore. Infatti presuppone la contrazione di un prestito bancario e la relativa restituzione, in 20 anni, di capitale, interessi e del costo di una polizza che assicura il rischio della premorienza. Comunque i lavoratori che vorranno utilizzare questa opportunità avranno tutta la nostra assistenza. Per quanto concerne invece l’Ape aziendale e la RITA, riteniamo che questi strumenti siano perfettibili, comunque potranno essere utilizzati nelle specifiche condizioni collettive o individuali.

Rispetto invece alla mole di domande per accedere all’Ape sociale e alla Quota 41 che si troveranno a ricevere i patronati e viste le scadenze di breve termine, non si rischia di dover fronteggiare un contesto difficile anche nella preparazione delle pratiche?

La scadenza del 15 luglio è molto ravvicinata a causa dei ritardi nella pubblicazione dei decreti. La cosa che più ci preoccupa, nel caso delle attività gravose, è che la documentazione più importante deve essere prodotta dal datore di lavoro, non sempre preparato a questi adempimenti. Il Patronato Inca ha già avviato un’attività informativa rispetto alla platea dei potenziali beneficiari e quindi ci auguriamo di ridurre al minimo i disagi.

Passando alla Fase 2 della riforma, con il rinvio dell’ultimo incontro tra Governo e sindacati i lavoratori si interrogano sui nuovi provvedimenti in fase di studio: quali sono i nodi più difficili da sciogliere rispetto alle numerose tematiche in discussione?

Non abbiamo ancora capito le intenzioni vere del Governo, al netto delle oggettive incertezze legate al termine della legislatura. Per noi la questione da cui partire è la pensione contributiva di garanzia, cioè il dare una prospettiva previdenziale ai giovani, compresi coloro che sono impiegati in attività precarie, discontinue, povere. Altro tema è allargare e rendere più equo il sistema della flessibilità in uscita, tenendo anche conto delle diverse aspettative di vita.

Infine, dopo gli ultimi interventi sulla tutela del genere femminile in arrivo dalla Camera e la lettera aperta del Comitato Opzione Donna Social, si è riacceso il dibattito pubblico sui lavori di cura. Quale spazio può trovare la vicenda nella dialettica con il Governo ed all’interno delle nuove misure di riforma della previdenza?

La tutela previdenziale per le donne è un'emergenza. Non esiste più un criterio che riconosca il diverso carico di lavoro e le specifiche complessità nella conciliazione del lavoro professionale con quello di cura, che grava quasi esclusivamente sulle donne. Per queste ragioni le lavoratrici molto spesso hanno più discontinuità contributiva, salari più bassi e pochi contributi versati. Anche questo è un tema della fase due, e per noi prevedere il riconoscimento del lavoro di cura, per i figli ma anche per gli altri famigliari in caso di non autosufficienza, è urgente e giusto.