“Generazione erasmus” quella che prende il nome dal programma europeo di mobilità studentesca che permette agli studenti di effettuare periodi di studio in Università straniere e che ha contribuito a creare una consapevolezza dei ragazzi che ne hanno usufruito di essere parte integrante di un’Europa di cui sentirsi cittadini a pieno titolo, di immergersi in una positiva contaminazione di culture e stili di vita che ha influenzato indubbiamente un modo di concepire l’Europa anche per chi non ha preso parte a tale programma.

La generazione quindi che viaggia e che è stata presa di mira recentemente per questo con infelici battute da parte del ministro Poletti.

Ma questo termine è servito negli ultimi tempi come cappello per una generazione intera, nel linguaggio giornalistico si usa questa parte per un tutto che è molto diverso e molto più complesso. Questa semplificazione distoglie l’attenzione dalla fotografia di una generazione, quella dei giovani italiani (una fascia d’età dai confini mobili) che è molto diversa e che ci mostra una situazione che si discosta di molto da quella dei giovani laureati o plurititolati che girano l’Europa e il Mondo in cerca dell’affermazione e spesso di una realizzazione professionale che in Italia si fatica a trovare.

L’ultimo rapporto OCSE sull’Istruzione ci mostra infatti un quadro totalmente differente per quanto riguarda il livello di istruzione degli adulti (25 – 64 anni), fascia in cui solo il 17% delle persone possiede un titolo universitario di secondo livello; se le tendenze dovessero essere confermate, soltanto il 20% dei giovani conseguirà un titolo di secondo livello e soltanto il 34% un diploma di istruzione terziaria, rispetto a una media OCSE del 50%. Va detto anche che l’80% circa degli studenti non beneficia di alcun aiuto finanziario per sostenere le tasse universitarie. Se analizziamo l’istruzione secondaria superiore invece il 56% degli studenti sceglie istituti di indirizzo tecnico e professionale che sono anche quelli che in Italia offrono più sbocchi lavorativi.

Un terzo dei giovani di età compresa tra i 20 e i 24 anni invece non studia e non lavora, sono i cosiddetti neet, in drammatico aumento, che emergono tra le pieghe di un mercato del Lavoro che ha subito i contraccolpi della crisi economica e finanziaria e sono forse la faccia più preoccupante di una generazione vittima di un modello che ha creato un precariato diffuso e a tratti ingestibile.

Ma anche andando oltre il mero criterio statistico, è innegabile come questa generazione si sposti in altri Paesi per i motivi lavorativi più disparati e che spesso non hanno nulla a che vedere con percorsi post – accademici. Per molti che viaggiano, moltissimi rimangono e anche qui non è corretto parlare unicamente di precariato intellettuale, quando invece vi è una maggioranza che si occupa o è alla ricerca di lavori anche di altro tipo.

La descrizione e l'analisi di una generazione dovrebbe infatti partire dalla constatazione di come la stessa è formata da molte sfumature, percorsi professionali e scolastici molto differenti e proprio per questo molto complessa ne è l'interpretazione. Rimane il retrogusto strumentale e amaro di leggere in questa etichetta il sottotitolo di "migliore gioventù", lo è sicuramente, ma lo è assieme a quanti affrontano le sfide di quotidianità differenti, sono costretti ad un abbandono scolastico troppo prematuro o compongono la vita in altro modo, per scelta o per necessità.