I mesi di campagna referendaria hanno messo in bella mostra quanto la Politica ed il dibattito che la tiene in vita siano usciti dal confine della contesa leale per scivolare in una palude di lotta, una guerra tra bande dove non si rispettano le leggi del buonsenso. La violenza verbale diventa il metro con cui misurare gli interventi.

Vi è un decadimento continuo e rapidissimo che ha spostato l’asse dalla cura delle esposizioni all’attacco offensivo.

Finita la sbornia post elettorale, sembra che il campo sia stato ripulito dall’allucinazione collettiva che ci ha visti tutti immersi in una sorta di bolla referendaria, sospesa dal contingente.

Le lacrime della Presidente

Abbiamo assistito tutti ieri all’attimo, forse più di stanchezza che di fragilità, in cui la Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, non trattiene le lacrime durante una seduta del Consiglio regionale, tra l’imbarazzo e lo stupore dei presenti.

Serracchiani, che ha fatto della sua vita politica una missione portata avanti sempre con professionalità ancorché abbia portato avanti scelte impopolari in maniera fin troppo indipendente, è stata sempre percepita come una donna forte, caparbia. Se è vero che molte delle sue scelte politiche sono state contestate (non ultima la decisione di accettare la vicepresidenza PD in tandem con Guerini, nonostante fosse già governatrice della Regione FVG), stupisce comunque il modo in cui ha destabilizzato quelli che aveva davanti ieri in Consiglio: l’umanità che irrompe nel personaggio politico.

Ma le parole che la Serracchiani pronuncia non possono che metterci davanti ad alcune incontrovertibili verità: le accuse vengono spesso portate dal piano prettamente politico a quello personale, con acrimonia alle volte aprioristica e questo è ancor più vero se a sopportare il carico delle critiche è una donna.

Questo perchè ci troviamo in un mondo, non solo politico, ma più in generale professionale permeato da maschilismo e competitività.

Lasciano ancora più amaro in bocca le provocazioni a pioggia dopo l’episodio di ieri, le accuse che si spostano con una rapidità incredibile dal piano delle contestazioni politiche a quello delle offese personali, un turbine di epiteti anche volgari sui social.

Queste accuse poco hanno a che vedere con la politica, ma vanno a pescare quei sentimenti di rabbia repressa e impotenza che è più facile da dispiegare in sprezzo dell’altro che in razionale confronto.

Le molotov e le spedizioni punitive

Siamo sempre a ieri e sempre nella stessa regione, quel Friuli Venezia Giulia terra di confine e con una riconosciuta storia di emigrazione. Succede che il sindaco di Turriaco, un paese di neppure 3000 anime in provincia di Gorizia, sia bersaglio di atti intimidatori con il fine di punire la decisione di accogliere 12 richiedenti asilo in una parte dell’ex Caserma dei Carabinieri.

Il sindaco, Enrico Bullian, che già giorni prima aveva ricevuto una lettera intimidatoria, è stato in qualche modo destinatario anche di un’ulteriore missiva accompagnata da una bottiglia incendiaria. Anche qui un rappresentante delle istituzioni, anche qui la violenza come veicolo del disaccordo, anche qui la rabbia che sfocia in oltraggio.

E la stessa rabbia, che sembra covare nel calderone di una società minata dalla crisi economica e con essa da quella valoriale, sfocia anche qualche chilometro più in là, sempre nella giornata di ieri, quando vicino a Montecitorio l’on. Osvaldo Napoli è stato sottoposto ad un farsesco e brutale “arresto in nome del popolo italiano” da alcuni membri del movimento “9 dicembre Forconi”.

C’è un filo sottile che lega tutti gli episodi di ieri, un filo nero e drammatico, ed è l’incapacità di darsi un perimetro civile entro cui confrontarsi e dissentire, anche pesantemente. I social network, inoltre, fungono da cassa di risonanza di un malcontento che sta diventando sempre più critica distruttiva e mai propositiva.