L’attentato di Londra di ieri ci fa riprecipitare tutti nell’incubo, ovvero ci riproietta in quello stato di insicurezza e angoscia di cui le metropoli occidentali fanno esperienza da ormai sedici anni; dall’11 settembre, infatti, ognuno di noi ha mutato il suo modo di relazionarsi agli spazi pubblici, e se ciclicamente, per un’ovvia necessità di adattamento e per poter sopravvivere, la nostra psiche decide di mettere ai margini della memoria il rischio costante di “restare vittime” delle barbarie terroriste, i fatti della cronaca tornano ad angustiarci ricordandoci che il pericolo è sempre costante.

Si tratta di un pericolo indefinito, invisibile e perciò stesso non evitabile, perché è impensabile per ciascuno sacrificare le proprie pratiche quotidiane (andare a lavoro, uscire di casa, andare ai concerti, prendere l’aereo); l’effetto che sull’immaginario collettivo produce la notizia di un nuovo attentato ci dice molto sul funzionamento delle nostre facoltà di adattamento alle crisi e alle tensioni, nonché sulle modalità con le quali stabiliamo una relazione tra la nostra vita e le notizie che riceviamo dai media.

Il terrore diffuso: la tecnica psicologica dell'ISIS

Da un lato, il terrorismo jihadista intende diffondere il terrore fin nel profondo del nostro tessuto sociale e delle nostre abitudini: se l’approccio cognitivo nei confronti dell’orrore è stato sempre in qualche maniera “catartico”, perché l’orrore accadeva sempre lontano da me, altrove, e questo effetto di distanza capace di ammansire e scaricare l’energia del trauma era garantito dall’intermediazione dello schermo o del monitor (come ha sostenuto il filosofo Slavoj Žižek); ora si vuole portare l’orrore in casa, per dimostrare che nessuno è al sicuro.

Se infatti il cordoglio e il dolore per la morte altrui erano sempre garantiti da quella distanza, che coincideva anche con un'inammissibile e perversa morbosità inconscia che fa tutt’uno con l’attrazione per la catastrofe, ora l’intenzione dell' ISIS è quella di renderci parte dell’orrore, minacciando la vita di tutti i giorni. In fondo, è quanto accade a molti connazionali nel corso degli ultimi mesi con gli eventi sismici: la sensazione diffusa è che “nessuno è al sicuro”.

La percezione massmediale e la verità sul nemico

La strategia dell’ISIS è senz’altro incisiva, tanto che sta determinando anche le politiche dei vari stati e sta plasmando le nostre credenze e idee; ma questa influenza ancora una volta sottolinea quanto siano determinanti i messaggi massmediali e la percezione del rischio, piuttosto che il rischio in sé.

In altre parole, da una prospettiva concreta e pratica, l’ISIS sta fallendo su ognuno dei suoi piani: sul campo in Medio Oriente l’organizzazione capeggiata da Al-Baghdadi è praticamente annientata, il numero degli attentati e la loro efficacia sta diminuendo in maniera evidente, molti degli attentati sono compiuti da “cani sciolti” che si fanno ispirare dal messaggio jihadista ma non si tratta di autentici foreign fighters. Le capacità distruttive degli attentatori sono ridotte all’osso, e forse particolarmente significativo a tal proposito è sottolineare la sproporzione abissale tra l’evento di ieri e il tam tam mediatico, dal momento che già chiamarlo “attentato” risulta inadeguato.

In fondo, sentirsi minacciati perennemente e lo stato di ansia perpetua funzionano benissimo come strumento psichico: da un lato motiva alla coscienza la propria ansia legata a ragioni ben diverse, per venire attribuita a un nemico esterno, a un pericolo per il quale sono una vittima indifesa; dall’altro, convincersi di vivere nella possibilità di morire in ogni momento senza ragione e senza possibilità di salvarsi, non fa che rispondere alle esigenze del thanatos, ovvero del nostro insaziabile istinto di morte, rendendo la cosa ancora più efficace ed energica rispetto alla fruizione da lontano alla tragedia altrui.