Era un uomo insolito Vincenzino Menniti: istrionico, imprevedibile, burbero, meravigliosamente insolente, teatrale, dotato di innato talento per il turpiloquio condotto con stile impeccabilmente diretto. Di certo, con lui non ci annoiava, mai. E dietro quella maschera si schermiva l'animo di un uomo profondamente buono, sensibile al disagio degli altri, sempre in prima linea sul fronte della complessa amministrazione di una città del Meridione d'Italia, catanzaro.
Capoluogo di regione nel quale si era esercitata la migliore cultura borghese del '900, irrorata positivamente nel secondo dopoguerra dagli innesti di figure mirabili provenienti dall'ambito provinciale. Per citarne uno tra i molti, Ernesto Pucci, alla cui fonte di valori aveva attinto primariamente il giovane Vincenzino che proveniva da Guardavalle.
Una generazione di "cavalli di razza" della prima Democrazia Cristiana
Assieme a lui, i tanti che militarono nella democrazia cristiana in quel periodo a cavallo tra la fine degli anni '50 ed i primi '60, quando il miracolo della ricostruzione della Calabria passava anche dalla bonifica di vaste aree paludose, quando i fondi della Cassa del Mezzogiorno venivano impiegati con giudizio e competenza, quando le città scoprivano l'importanza dei piani regolatori per il loro ordinato sviluppo e quando, infine, la politica aveva chiari innanzi a sé gli obiettivi: sviluppo, benessere collettivo, lavoro, responsabilità.
Certo, nel tempo la declinazione di questi concetti ha subito ampie distorsioni. Ma Vincenzino Menniti da quella scuola non si è mai allontanato: erano per lui rudimenti di base, imprescindibili. La sua onestà era proverbiale. Eppure, la coniugava, efficacemente, con l'interesse generale, spesso sfidando, in nome di questo fine superiore, le ottuse convenzioni burocratiche. Dimostrando sul campo che la relazione virtuosa tra integrità morale e fattiva operosità è possibile.
La burocrazia come nido di serpi
In quei frangenti comincia la traccia del suo cursus honorum, prima come consigliere comunale e poi, negli anni '70 ed '80, più volte, come assessore in settori delicati dell'amministrazione comunale catanzarese.
Fu allora che s'attestò in una personale battaglia contro la mala-pianta della burocrazia. Intuì che dietro i codicilli si annidava la malversazione, l'impedimento al fare concreto che talvolta bloccava la politica e la città in una stasi melmosa. Lì c'erano poche chiacchiere: per lui la politica doveva essere atto di coraggio, percorso obbligato sulla strada dell'interesse collettivo. E per coloro che si fossero posti di traverso, la sua risposta era fatta d'improperi irripetibili, litigi ad altissima densità di decibel, scenate plateali. Vincenzino metteva in campo tutta la sua carica vitale per costringere l'interlocutore ad ammettere la verità dei fatti, fosse costui un semplice collega di Giunta, un altro consigliere comunale, un leader di partito, un alto dirigente dello Stato o un Ministro.
Erano atti d'amore per Catanzaro, la città che l'aveva accolto.
La maschera del mattatore
Così, a poco a poco, quella sua maschera di uomo diretto, sorretto da onestà d'intenti e di prassi, divenne marca indelebile della sua figura di politico, immagine originalissima ed estrema. Sulle questioni importanti, come nel caso delle opere pubbliche, marciava senza tentennamenti: da una parte c'era la verifica puntuale del processo di realizzazione - divenne il terrore delle imprese per le continue verifiche sulla congruità esecutiva dei lavori - e la conduzione a termine delle opere nei tempi previsti. Dall'altra, tutto il resto. E tutto il resto, a lui, non interessava. Per questa ragione era apprezzato anche dai leader dell'opposizione.
Gli bastava che le persone capissero il suo impegno e lo gratificassero della loro stima. Come in occasione della storica visita di Papa Wojtyla a Catanzaro nel 1984.
La politica come passione brulicante d'umanità
Ha vissuto in simbiosi con il suo mondo, un'idea dinamica e progressiva della politica, esigendo risultati, soprattutto da se stesso. Ogni giorno era come un esame: sempre teso e pronto ad accendersi come un cerino, molti all'inizio non capivano i tratti più rudi del suo carattere. Poi, seguendolo, intuivano la sua passione per la bellezza del fare e la sua astinenza dai tatticismi politici. Coltivò sempre in questo solco i rapporti umani, conquistando amicizie senza tempo, tra le risate di una goliardica visione della vita e la stima per la sua pulizia morale, l'intelligenza dell'amministratore coraggioso e la bontà d'animo. Se n'è andato con la modestia materiale che lo ha distinto, lasciando il ricordo di uno spirito combattivo ed intimamente fragile.