Pur secondo accezioni e declinazioni teoriche tra loro differenti, già nella riflessione filosofica antica su quel modo d’essere se stessi che siamo soliti definire “gentile”, è possibile individuare un comune denominatore di cura della comunità (mantenimento dell’ordine, della pace e della giustizia), crescita e realizzazione personale (conoscenza, perfezionamento di sé, pratica della virtù e ricerca della felicità) ed etica del dono (amicizia come forma di reciprocità).
L'origine della parola "gentilezza"
Gentilezza deriva dal latino gentilis (appartenente alla stessa famiglia, gens), assumendo il significato di nobile, di buona razza, poi quello attuale di cortese, garbato, appunto “generoso”.
Nella lingua greca – in cui non esiste un termine specifico per definire questa pratica – il termine philanthrophía è sicuramente quello più vicino a uno dei significati che apprendiamo dall’etimologia latina. Esso definisce l’atteggiamento cordiale, umano, appunto generoso: è composto dai sostantivi – fondamentali – phílos, l’amico, che se usato come aggettivo definisce ciò che è caro (tò phílon), amato, gradito, ben accetto, degno d’amore, e ánthropos, il “genere umano”.
Sempre nella lingua greca, altri termini importanti che rinviano agli altri significati della gentilezza sono eughéneia (di buona nascita, nobile d’animo e raffinato nei discorsi) e soprattutto la káris (grazia, ma anche benevolenza, gratitudine, riconoscenza). Ma non è questo il luogo per approfondire analiticamente tutte queste distinzioni terminologiche. Partiamo invece da alcuni riferimenti testuali, in modo da sviluppare alcune considerazioni di ordine più generale intorno alla gentilezza.
L'interpretazione di Platone
Come è noto, Platone ha dedicato un intero dialogo giovanile al tema dell’amicizia, il Liside, testo in cui troviamo esposte considerazioni illuminanti proprio rispetto alle pratiche che definiamo “gentili”.
Colpisce lo stretto legame tra comprensione degli eventi, pensare in grande, amicizia e utilità pubblica (krésimos): chi è utile alla città e agli altri è un buon cittadino.
“Infatti è proprio così, mio caro Liside, [afferma Socrate] – dissi; tutti si fideranno di noi per tutte quelle cose in cui saremo più sapienti (phrónimoi), Elleni e barbari, uomini e donne, e in questo potremo fare ciò che vorremo e nessuno ci sarà di ostacolo, ma saremo liberi di trattarle come vorremo, comanderemo agli altri ed esse ci apparterranno, poiché potremo trarne un vantaggio; al contrario in quelle cose di cui non avremo padronanza, nessuno ci lascerà liberi di agire, anzi tutti ci ostacoleranno per quanto possibile e non solo gli estranei, ma anche il padre e la madre e altri ancora, se ci fosse qualcuno di più intimo e in esse dovremo sottostare agli altri ed esse non ci apparterranno.
Nessun vantaggio, infatti, ne ricaveremo; sei d’accordo?” (Liside, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, 210 B-C, pp. 747-748).
Poco più oltre afferma sempre Socrate: “Se tu, però, diventerai sapiente, o ragazzo, tutti ti ameranno e ti saranno amici, perché sarai utile e buono; in caso contrario nessun altro, ma neppure tuo padre e tua madre e i tuoi parenti ti saranno amici” (ivi, 210 D, p. 748). “Ma ti pare possibile, o Liside, avere un alto concetto di sé in quelle cose in cui non si sa ancora pensare?” (ibidem).
Come ci ricorda Diogene Laerzio, che nelle Vite dei filosofi descrive le tre specie di “filantropia” in Platone, esiste quella che si realizza col saluto, quella che si attua soccorrendo gli infelici, e infine quella di coloro che godono della consuetudine di “convitare”.
Dunque filantropia del saluto, del beneficio, dell’ospitalità e dell’amore dei rapporti sociali (D. Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Mondadori, Milano 2009, p. 131). Segue il richiamo alla nozione corollario della felicità: essa, scrive Laerzio, “consiste di cinque parti: saggezza del consiglio, piena sensibilità e sanità fisica, successo nelle azioni, reputazione eccellente fra gli uomini, abbondanza di ricchezze e dei mezzi utili alla vita” (ibidem).
“La saggezza del consiglio deriva dall’educazione e da una ricca esperienza; la viva sensibilità dipende dalle parti del corpo, per cui, se l’uomo vede con gli occhi, ode con le orecchie, e percepisce ciò che deve percepire col naso e con la bocca, tutto ciò costituisce la sensibilità perfetta; il successo consiste nella realizzazione retta degli obiettivi che deve proporsi ogni uomo virtuoso; la buona reputazione si ha quando si sente parlare bene di sé.
La ricchezza di mezzi si ha quando si possono affrontare i bisogni della vita in maniera tale da poter beneficare gli amici e sostenere pubbliche spese con magnificenza e splendore. Chi possiede tutti questi requisiti è perfettamente felice. Dunque fanno parte della felicità la saggezza del consiglio, la piena sensibilità e la sanità fisica, il successo, la gloria, l’abbondanza di mezzi” (ibidem).
Nel primo libro della Repubblica, Socrate replica a Trasimaco sottolineando il valore della káris, della riconoscenza, del “contraccambiare”: “È vero quel che affermi, Trasimaco: effettivamente, io imparo dagli altri. Sbagli, però, quando dici che non do nulla in cambio (kárin ektínein). In verità, contraccambio con quel che posso, e, dato che non possiedo ricchezze, pago solo con le lodi.
Ma, queste, quando uno mi sembri dire cose giuste, le faccio di cuore; e del resto non passerà molto che anche tu potrai rendertene conto, non appena inizierai a rispondere; sono convinto infatti, che dirai cose egregie” (Repubblica, in op. cit., I, 338 B, p. 1092).
La versione di Aristotele: dalla gentilezza alla democrazia
Veniamo ad Aristotele. Nella Retorica, descrivendo il carattere dei giovani messo a confronto con quello dei vecchi, osserva che i primi sono “magnanimi” giacché, non essendo ancora stati immiseriti dalla vita, sono inesperti delle cose necessarie, e “il ritenere se stesso degno di grandi cose è magnanimità; e questo è proprio di chi ha facilità alla speranza”; essi, per tali ragioni, “sono amanti di amici e amanti di compagni più che le altre età, per il fatto di rallegrarsi di vivere assieme e di non giudicare mai niente in rapporto al vantaggio; per cui neppure gli amici” (Retorica, in Opere filosofiche, vol.
III, a cura di M. Zanatta e L. Caiani, UTET, Torino 1999, II, 1389 a-b, pp. 1354-1355). Mentre anche i vecchi sono più inclini alla compassione, ma “non per le stesse ragioni dei giovani”, precisa Aristotele, perché questi ultimi lo sono per “filantropia” e non per “debolezza” come i vecchi che “ritengono di essere prossimi a patire tutte le pene” (ivi, II, 1390 a, p. 1357).
Nell’Etica Nicomachea (vedi il libro VIII dedicato all’amicizia) lo Stagirita sottolinea che vi è amicizia quando partecipiamo alla comunità (ossia laddove esiste qualcosa di “comune”) e nella stessa misura realizziamo la giustizia (Etica Nicomachea, in op. cit., 1159 b, p. 875). Mentre è nell’amicizia motivata dall’utile che unicamente o principalmente “sorgono accuse e biasimi” (ivi, 1162 b, p.
878).
Nelle forme politiche deviate, infatti, “come il giusto ha poco spazio, così anche l’amicizia, ed essa è ridotta al minimo nella forma di costituzione peggiore: nella tirannide l’amicizia è nulla o poca cosa. Infatti nei gruppi nei quali chi comanda e chi è comandato non hanno nulla in comune, non esiste neppure amicizia; e neppure il giusto. Il rapporto è come quello di un artigiano con lo strumento, dell’anima con il corpo e del padrone con lo schiavo” (ibidem, 1161 a).
Non solo: Aristotele precisa che nelle tirannidi “sia le amicizie che la giustizia hanno poca importanza, mentre nelle democrazie rivestono un ruolo maggiore, perché molte sono le cose comuni a coloro che sono uguali” (ivi, 1161 b, p.
876). Vincolando amicizia e giustizia, Aristotele salva nello stesso tempo anche la “gentilezza”, mostrando così uno dei punti di forza della democrazia (che pure egli, come è noto, non considerava la migliore forma di governo). Sulla base di quest’ultima lettura, possiamo affermare che se la gentilezza diventa un’abitudine può diventare nello stesso tempo anche una virtù, ossia una condizione stabile del carattere, una direzione qualitativa che diamo al nostro agire, indispensabile per poter condurre una vita buona nella comunità.
Cicerone e l'amicizia tra pari
Nel De amicitia Cicerone mostra per bocca di Lelio come l’amicizia fra due persone nasca per una qualche manifestazione di virtù “verso la quale si orienti e alla quale si accosti un animo che le sia congeniale” (Cicerone, De amicitia, a cura di G.
Pacitti, Mondadori, Milano 2016, p. 129), mentre i tiranni sono poveri di amici (ivi, p. 133). La costanza, sempre in amicizia, appartiene a un “genere divino” (ivi, p. 141).
Cicerone sottolinea inoltre la necessità, in amicizia, di “farsi uguale a chi è inferiore”, perché così facendo si sperimenta la “gentilezza” nei confronti degli altri, rendendoci partecipi alla condizione del prossimo. Scrive ancora: “Come, dunque, debbono adeguarsi agli inferiori quelli che sanno d’essere superiori ad amici e a parenti, così questi non debbono adontarsi se sono superati da amici e da parenti per doti di ingegno, per mezzi di fortuna o per il prestigio” (ivi, p. 147). “Se è vero, dunque, che chi è superiore deve abbassarsi fino all’amico, è anche vero che deve in certo modo innalzarlo” (ibidem).
Perché il vero amico è come “un altro se stesso” (ivi, p. 153).
Il rapporto “gentile” che lega due individui attraverso l’amicizia non va però confuso con l’adulazione, giacché “essa incoraggia i difetti e non solo non è degna di un amico, ma neppure di un uomo libero: e poi, altro è vivere con un tiranno, altro è vivere con un amico!” (ivi, p. 161). Su queste basi, la forza dell’amicizia consiste in ultima istanza nel fare “di più anime una sola” (ivi, p. 163).
Dal canto suo, Seneca mostra come attraverso l’amicizia sia possibile stabilire tra più individui “una comunanza di interessi”, se è vero che “si vive per la comunità”, e che “non può vivere felice chi guarda esclusivamente a se stesso, chi volge ogni cosa ai propri comodi”: “è importante vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso”. Pertanto, “avrà tutto in comune con l’amico chi ha molto in comune con gli esseri umani” (Seneca, Lettere a Lucilio, a cura di F. Solinas, Mondadori, Milano 1994, p. 125). Centrale, anche in questo caso, l’importanza dei doveri e degli obblighi verso il genere umano: “uomo equivale ad amico” e il saggio “si dona a un amico” (ivi, p. 126).
Leggi la seconda puntata della serie: La gentilezza verso l’altro parte dalla vita interiore personale.
Leggi la terza puntata della serie: La democrazia è l’unica forma politica in cui la gentilezza si realizza a pieno.