In questo intervento mi concentrerò sul rapporto tra guerra, pace e futuro della democrazia, per mostrare come il conflitto ucraino in corso ci stia riportando agli schemi del Novecento. Sottolineo pertanto la necessità sia di ripensare il ruolo strategico delle democrazie occidentali sia di progettare un nuovo modello politico equo e solidale, capace per questo di porsi in dialogo anche con i modelli euroasiatici, auspicando una risoluzione “diplomatica” dei conflitti.

1. Guerra, morte e nichilismo della “potenza”: il debito “aperto” con il Novecento

Comincio da Freud. Percependo il dramma della Prima guerra mondiale, nelle sue considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915) il padre della psicoanalisi sottolineava la profonda “delusione” della guerra, assieme al “mutamento” del nostro atteggiamento verso la morte, proprio in quanto la guerra “elimina le successive sedimentazioni depositate in noi dalla civiltà”, lasciando “riapparire l’uomo primitivo”.

Non solo, “ci costringe nuovamente a essere eroi, incapaci di credere alla nostra morte; ci addita gli stranieri come nemici, a cui siamo costretti a recare o ad augurare la morte; e ci invita a sopportare con serenità la morte di persone care”. Ma se è vero che la guerra non si lascia facilmente sopprimere, si domandava Freud, non sarebbe più ragionevole riconoscere che “col modo nostro, di uomini civili, di trattare la morte abbiamo vissuto al di là delle nostre possibilità psicologiche e che perciò ci conviene abbandonarlo e piegarci alla verità”?

La verità di fondo era questa: si vis vitam, para mortem, “se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte”.

Se valorizziamo questi assunti freudiani, ancora oggi la situazione paradossale della guerra in Europa e della minaccia nucleare rivela il suo profondo significato storico e politico solo a condizione che si tenga in conto la pesante (proprio in quanto per molti versi irrisolta) eredità del “secolo breve” (ovvero dei totalitarismi e della “banalità del male”), eredità che ci mostra quanto il soggetto, oggi, sia ancora incapace “di sentirsi parte di un mondo comune, cioè di esercitare la facoltà del giudizio ponendosi dal punto di vista degli altri”.

Perché il Novecento ha rappresentato soltanto in parte il trionfo della democrazia pluralista e della société ouverte (secondo l’impiego che di questa espressione fece Bergson in Le due fonti della morale e della religione [1932]; ripresa, come è noto, da Karl Popper [1945] con una declinazione diversa, chiamando in causa l’eredità di Platone, Hegel e Marx).

Nel vecchio “blocco sovietico” poteva avere un senso soltanto la società del “socialismo reale”, contrapposta al modello occidentale “capitalistico”. Si preferiva perseguire, riprendendo direttamente un’espressione di Tocqueville relativa al socialismo (lui lo vedeva così), “l’eguaglianza nel disagio e nella schiavitù”, piuttosto che favorire la “eguaglianza nella libertà”, caratteristica precipua della democrazia.

In questo modo, considerando il socialismo e la democrazia non solo cose diverse ma contrarie, Tocqueville introduceva così il tema dell’autocrazia comunista, “prodotta dalla stessa trasformazione autoritaria della democrazia e dai suoi ingranaggi sociali, dal livellamento egualitario e dalla massificazione”.

I paesi come l’Ucraina conoscono da vicino questi ingranaggi novecenteschi, ed è per tali ragioni storiche che da tempo guardano con più fiducia alla democrazia europea.

Alla base del vecchio modello sovietico – ciò è ormai riconosciuto con ampie convergenze – stava un grande pessimismo antropologico, quello che ha reso legittima la modernizzazione accentratrice, burocratica e ideologica del totalitarismo. Una realtà costruita soltanto sul mondo dei bisogni materiali (peraltro largamente insoddisfatti) conduce progressivamente alla disperazione proprio tutte quelle società che, senza più rassicurazioni e non avendo più nessuna ragione per “rassegnarsi”, cercano in ogni modo di porsi sul principio opposto, volendo “la potenza” (magari attraverso il nazionalismo), costringendo i potenti a essere i loro “carnefici” (riprendendo direttamente le parole di Nietzsche).

È quanto abbiamo visto accadere nel blocco orientale per settant’anni, con una parabola discendente che coincide con le date “simbolo” del 9 novembre 1989 (caduta del muro di Berlino) e del 1 luglio 1991 (scioglimento del Patto di Varsavia).

Eppure, è proprio a partire da quella fase di declino che, malgrado le apparenze, quei mondi sommersi hanno cercato di rilanciarsi in modo strategico, sebbene le poche voci che da tempo segnalavano timidamente questo fenomeno siano rimaste quasi sempre inascoltate. Proprio mentre le società occidentali “iperconnesse” perseguivano il capitalismo della globalizzazione multiculturale, con l’Europa che favoriva la libera circolazione, la Cina iniziava a realizzare un modello politico ed economico in sorprendente continuità con il Novecento (una commistione di comunismo, ateismo, materialismo, pragmatismo e ideologia), da esportare oltre i confini nazionali verso l’Occidente, proponendosi, si legge nel recente Tredicesimo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo (2021), “come una convivenza tra capitalismo e socialismo, tra accentramento e autonomia, tra ordine e libertà, tra controllo e solidarietà, tra ateismo e tradizioni religiose”, un “centralismo” in cui “il controllo non solo dei movimenti ma della vita stessa dei cittadini è proposto come motivato dalla solidarietà popolare sotto la veglia del Grande Padre, il Partito Comunista”.

Ma la storia, purtroppo, non finisce qui. Con la pandemia da COVID-19 (fenomeno per molti versi in continuità con il disastro nucleare di Chernobyl in Ucraina del 26 aprile 1986), si è affermata sorprendentemente una gestione Politica “globale” che ha reso legittime, anche nelle democrazie liberali occidentali, proprio quelle forme capillari di controllo e di limitazione delle libertà che in Cina, soltanto per ricordare cose note, erano, ormai da decenni, una prassi consolidata, anche e soprattutto grazie al supporto dell’intelligenza artificiale.

In piena sintonia con questi modelli, vincolati al comune denominatore del “controllo sociale come dipendenza”, il 24 febbraio 2022 è iniziata l’invasione armata della Russia in Ucraina.

Ebbene, anche nel caso della guerra in atto tra Russia e Ucraina abbiamo visto prevalere chiaramente i vecchi modelli totalitari del Novecento: repressione, violenza diffusa, controllo sociale, distruzione, ritorno ad un rigido conformismo ideologico (politico e religioso), al cui interno si riscontra (e ciò non è affatto un caso) l’attacco serrato alla cultura dei diritti umani e civili.

Nello stesso tempo, in Occidente si è riaperto il dibattito sulla pace e sui modi in cui praticarla, proprio nei casi in cui, come quello dell’Ucraina, un paese libero e democratico viene invaso con la forza da parte di un’altra potenza. Un dibattito, quest’ultimo, che ad oggi non sembra ancora aver formulato una proposta politica organica.

Ed è per questa ragione che intendiamo ripartire proprio da questo punto.

2. Per una “pragmatica della pace”

In apertura abbiamo visto Freud discutere l’antico detto si vis pacem, para bellum, “se vuoi conservare la pace, preparati alla guerra”, allargando l’indagine al più ampio rapporto tra la vita e la morte: si vis vitam, para mortem.

Esistono pertanto due modalità di intendere la pace (lo si vede chiaramente nel dibattito in corso a livello europeo): da un lato alcuni la interpretano idealisticamente nel nome della semplice neutralità, insistendo sulla forza dei negoziati (che ad oggi non sono risultati molto efficaci); altri, invece, muovendosi lungo una traiettoria più concreta (che rivaluta Hobbes), fanno giustamente osservare come la pace sia quasi sempre il risultato di precedenti conflitti, sia appunto una “difesa” rispetto ad una “minaccia” sempre allo stato latente.

Vi sono anche coloro che auspicano (con altrettante buone ragioni) un disarmo radicale globale. Ma si tratta pur sempre di posizioni “ideali”.

Mi pare più opportuno rivalutare piuttosto una prospettiva di “pragmatica della pace”, in grado di conciliare pensiero e azione, anche e soprattutto laddove si auspica, kantianamente, un futuro di “pace perpetua”.

Il padre del pragmatismo americano William James (che non amava la guerra), nel 1897 affermava significativamente che “l’uomo, sia detto una volta per tutte, è un animale combattente; secoli di pace non potranno espungere da noi l’istinto della battaglia; e la nostra pugnacità è la virtù che meno richiede di essere rafforzata dalla riflessione, meno chiede l’aiuto dell’oratore o del poeta”.

È proprio sulla base di questo lucido realismo antropologico che occorre ripensare oggi il grande valore della pace, perché, nella sua storia, l’uomo spesso ha dovuto combattere per essa.

Anche Bergson (già presidente nel 1922 della Commissione Internazionale di Cooperazione Intellettuale entro la Società delle Nazioni, lo stesso ruolo che oggi riveste l’UNESCO nell’ONU) è consapevole della persistenza delle tendenze alla guerra. Lo mostra chiaramente anche quando descrive le vite degli eroi e dei mistici come “testimonianze della possibilità dell’apertura e della pace”, veri e propri “vettori”, come è stato giustamente evidenziato dalla critica, che congiungono “la dimensione immanente e storica alla fonte della vita che trascende l’esistenza individuale dell’uomo”.

E può affermare questo proprio essendo consapevole del fatto che il vero punto di accordo si trovi sul piano intellettuale, indicando nell’educazione “il problema politico per eccellenza nella prospettiva della realizzazione della pace tra i popoli”. Nel celebre discorso del 12 dicembre 1914, tenuto durante la sua presidenza dell’Accademia delle scienze morali e politiche, Bergson critica il militarismo prussiano, additando nel “macchinismo” quel principio che, già dalla guerra austro-prussiana (che, ricordiamolo, vide la vittoria della Prussia sull’Austria-Ungheria), porta ad un ordine “povero come tutto quanto è artificiale”, opposto a quell’ordine “più ricco e più agile cui mettono capo, di per sé, le volontà liberamente associate”.

Anche in questo caso, si badi: eguaglianza nella schiavitù versus eguaglianza nella libertà.

Ora, quando si affronta il problema della guerra, occorre confrontarsi con il suo retroterra ideologico che è costituito dalla rigidezza, dall’automatismo, dall’odio verso il nemico comune, dall’uso incondizionato della forza, dalla disciplina e dalla gerarchia (funzionale appunto ad ottenere l’eguaglianza nella schiavitù).

Ed è sulla base di questi caratteri che un popolo finisce per diventare quello “eletto”, una “razza di padroni”, “accanto agli altri che sono razze di schiavi”, con il risultato che “nulla è interdetto di quello che può giovargli a fondare il suo dominio”. Fino a trasporre “intellettualmente” la propria brutalità, utilizzando certe dottrine per spiegare quello che i popoli o gli individui sono e fanno, come quando la Germania prese dalla Francia Gobineau, “per innalzarlo alla celebrità” grazie alla sua teoria delle razze “predestinate”.

3. Sul futuro della democrazia: tra “società chiusa”, “società aperta” e rischio di catastrofe planetaria

Seguendo ancora per un momento il filo rosso della riflessione bergsoniana (tralasciando di considerare in questa sede come egli effettivamente esercitò il suo ruolo in America durante la Prima guerra mondiale), merita riportare questo suo lucido, imprescindibile, interrogativo: “Che avverrebbe, per dir tutto, se lo sforzo morale dell’umanità si rivolgesse contro se stesso al momento di raggiungere la sua meta, e se qualche artificio diabolico gli facesse produrre, invece di una spiritualizzazione della materia, la meccanizzazione dello spirito?”. Di nuovo, la scelta etico-politica fondamentale verte tra l’eguaglianza nella schiavitù e l’eguaglianza nella libertà.

Per uscire dalla morsa del militarismo, dunque dalla violenza, dalla barbarie e dalla distruzione generalizzata, occorre tenere conto del fatto che tanto il “macchinismo amministrativo” che il “macchinismo militare” non aspettano altro “se non la comparsa del macchinismo industriale per combinarsi con esso”, dando luogo così alla guerra. Il risultato è il ritorno alla “società chiusa”, i cui membri, regolati dall’istinto (pensiamo al nazismo), “stanno fra loro, indifferenti al resto degli uomini, sempre pronti ad attaccare o a difendersi, costretti dunque a un atteggiamento combattivo”.

E troppo spesso, questa società chiusa, resistendo all’azione dissolvitrice dell’intelligenza, può rinforzare in ciascuno dei suoi membri la fiducia indispensabile ricorrendo alla “funzione fabulatrice” (Bergson usa questa espressione) sia della religione (intesa soltanto come mero instrumentum regni) sia della retorica ideologica. Perché entrambe, religione dogmatica e ideologia politica, possiedono in questo caso il carattere della staticità e della coercizione normativa. La società aperta (eguaglianza nella libertà), invece, rappresenta il modello a cui guardare se vogliamo salvaguardare la vita sul pianeta, perché “è quella che può abbracciare in linea di principio l’umanità intera”. Pertanto, così conclude Bergson nel 1932, benché l’umanità sia giunta alla democrazia soltanto tardi, di tutte le concezioni politiche essa è “la più lontana dalla natura, la sola che trascenda, almeno nelle intenzioni, le condizioni della ‘società chiusa’”.

La democrazia, almeno nella sua realtà teorica, assume come contenuto un “uomo ideale, rispettoso degli altri come di se stesso”, appunto il cittadino “legislatore e suddito” (vedi ancora Kant), proclamando la libertà e richiedendo nel contempo l’eguaglianza, e mettendo in ultima istanza al di sopra di tutto la “fraternità”.

Ma oggi, se teniamo conto di tutte queste suggestioni teoriche provenienti dalle filosofie tra Ottocento e Novecento, la combinazione letale della pandemia con la guerra ha riportato in primo piano l’urgenza tanto di “combattere” la guerra in nome della pace (potrebbe sembrare un ossimoro ma purtroppo è soltanto un dato di realtà), tanto l’obbligo di ripensare un nuovo principio di realtà ecologicamente configurato, benché attraverso il ritorno al carbone e al nucleare (anche quest’ultimo non è un ossimoro, ma un altro inquietante dato di realtà, motivato anzitutto da precise ragioni economiche, con il quale occorre confrontarsi da vicino).

Eccoci dunque all’ultimo punto, inaggirabile: come evitare la catastrofe planetaria? Per evitare la catastrofe planetaria, “ecologica” in senso largo, occorre limitare il più possibile l’impatto di tutte quelle tendenze ideologiche che hanno un carattere “regressivo”, essendo orientate a riportare l’umanità nei secoli bui della storia (eguaglianza nella schiavitù), potenziando invece quelle “progressive” (eguaglianza nella libertà), in quanto orientate alla salvaguardia della vita biologica e culturale insieme. Tradotto in termini ecologici, per evitare la catastrofe planetaria occorre rispettare tanto la biodiversità biologica che la biodiversità culturale. Un compito da affidare alle nuove generazioni, educandole al valore dell’alta cultura, dunque allo studio della storia e della filosofia, delle scienze naturali, della cultura classica, dei grandi traguardi della modernità. Soltanto sulla base di un’attenta comprensione della storia l’essere umano può essere davvero capace di agire “in grande”, costruendo una comunità educante e predittiva, modellata sul principio della “fratellanza”.