Nella contemporaneità a noi più vicina, la gentilezza rappresenta un grande veicolo di integrazione sociale e soprattutto di possibile risoluzione dei conflitti. Almeno sotto questo profilo, va sottolineato lo stretto legame che intercorre tra la pratica della gentilezza e la democrazia. Quest’ultima, insieme alla “società aperta”, può essere considerata con buone ragioni come il migliore risultato storico della gentilezza.

Negli ultimi decenni la pratica della gentilezza è diventata oggetto di sempre maggiore attenzione interdisciplinare. Lo mostrano, per esempio, i lavori dello psicoanalista e filosofo Piero Ferrucci, così pure dello psicoanalista Adam Phillips e della storica Barbara Taylor (vedi On Kindness, tradotto in Italia nel 2009, in cui si esalta la gentilezza come il valore irrinunciabile della vita buona).

In La forza della gentilezza (Mondadori, Milano 2005) Ferrucci afferma significativamente che le persone gentili “sono più sane e longeve, più benvolute e produttive, hanno più successo negli affari, risolvono i conflitti con più facilità e si sentono più felici. Le persone gentili vivono una vita di qualità più elevata e finiscono per essere le più forti” (ivi, p. 18). Entro tale cornice, colpisce il nesso con l’evoluzione del genere umano, perché oggi, spiega Ferrucci, chi è gentile “è un individuo che sa usare e potenziare le facoltà che ci hanno aiutato nel corso della nostra evoluzione” (ivi, p.

25). La gentilezza viene dunque collegata a diverse pratiche e atteggiamenti relazionali: sincerità, innocuità, perdono, calore, appartenenza, contatto, fiducia, empatia, attenzione, umiltà, pazienza, generosità, rispetto, flessibilità, lealtà, memoria, gratitudine, servizio, gioia (cfr. ibidem).

Ma l’aspetto più interessante che emerge da questi studi interdisciplinari è individuabile nel modo “nostro” di essere gentili, unico e personale, per questo irripetibile, che percepiamo come più affine alla nostra sensibilità, alla nostra intelligenza e alla nostra memoria (ce lo ricordava poco fa lo stesso Bergson nel suo discorso rivolto ai giovani).

Riprendendo direttamente una formula di Nietzsche, essere gentili rappresenta il modo più diretto per “diventare ciò che siamo”, riscoprendo tutte quelle risorse relazionali che hanno permesso all’umanità di evolvere nel tempo come l’empatia, gli istinti altruistici, la cura, il bisogno di comunicazione, il senso di appartenenza alla comunità (Bergson, guardando a Platone, parlava non a caso di una “repubblica ideale”).

Attraverso la gentilezza, si rivela inoltre il lato più profondo della nostra personalità, e forse quello più completo, quello appunto in cui si rispecchia l’umanità intera (vedi ancora Bergson).

Se è vero dunque che la gentilezza ci predispone alla convivenza (pensiamo alla guerra, alla pandemia e ai disastri ecologici in atto) senza con questo rinunciare alla nostra natura e alla nostra personalità, la gentilezza è strettamente connessa con la nostra responsabilità di essere noi stessi, muovendoci lungo la difficile traiettoria della nostra emancipazione sociale (in questo senso la pratica della gentilezza ci apre anche al conflitto e al riconoscimento della differenza).

Di conseguenza, l’unica forma Politica che consente di realizzare in pieno tutto questo è la democrazia, che, come ci ricorda Bergson (e come a suo modo intuì lo stesso Aristotele), è la più lontana dalla natura, la sola che trascenda le condizioni della “società chiusa” (regolata dall’istinto e dalla paura dell’aggressore).

Possiamo pertanto affermare in conclusione che la democrazia e la “società aperta” rappresentano il migliore risultato storico della “gentilezza” intesa come fedeltà a se stessi e amore per il mondo.

Leggi la seconda puntata della serie: La gentilezza verso l’altro parte dalla vita interiore personale.

Leggi la prima puntata della serie: La gentilezza come ponte tra se stessi, il prossimo e la società.