Nell’età moderna e contemporanea vediamo come si conserva il significato della gentilezza come fedeltà a se stessi messo in luce dagli antichi, intesa più propriamente come una forma di autodeterminazione morale fondata sulla simpatia. Colpisce tanto la valorizzazione della sfera individuale (per esempio nella ricerca dell’utile personale in campo economico), tanto la ricerca di un orizzonte di intersoggettività (assumendo il punto di vista dell’altro). Attraverso la gentilezza così intesa prende forma la dialettica tra il “riconoscimento dell’altro” e il “riconoscersi in altro”.

La gentilezza nei filosofi dell'età moderna

Faccio adesso qualche richiamo a momenti importanti dell’età moderna. Spinoza nell’Etica (1677) definisce la “simpatia” come “l’amore verso chi abbia fatto del bene a un altro”, mostrando come “ci sentiamo ben disposti verso chi ha fatto del bene a una cosa a noi simile” (Spinoza, Etica, a cura di R.

Cantoni e F. Fergnani, UTET, Torino 2005, parte terza, proposizione XXII, scolio, p. 210).

Ma il punto più illuminante per questa discussione si può individuare dove egli mostra che “se qualcuno ha fatto qualcosa che immagina suscitare letizia negli altri, sarà affetto da una letizia accompagnata dall’idea di se stesso come causa; cioè egli considererà sé con letizia” (ivi, proposizione XXX, p. 216). Vediamo accadere tutto questo in modo emblematico nella pratica della “cortesia” (humanitas, che in latino significa anche benevolenza, educazione e civiltà).

La letizia, associata all’atteggiamento di “cortesia”, “aumenta e favorisce la potenza di agire dell’uomo” (ivi, proposizione XXXVII, dimostrazione, p. 222), accrescendo così l’esercizio della virtù nella ricerca del proprio utile, ossia nello sforzo di “conservare il proprio essere” sotto la guida della ragione e attraverso il dominio delle passioni (ivi, parte quarta, pp.

283 e 285). La cortesia, o modestia, spiega ancora Spinoza, consiste nel “desiderio di fare quelle cose che piacciono agli uomini e di non fare quelle che ad essi dispiacciono” (ivi, parte terza, XLIII, p. 259). Come corollario, l’uomo guidato dalla ragione risulta più libero in società, “dove vive secondo un decreto comune, che nella solitudine dove obbedisce soltanto a se stesso” (ivi, parte quarta, proposizione LXXIII, pp.

329-330).

Se ci spostiamo al Settecento, non possiamo trascurare il grande contributo del filosofo scozzese Adam Smith, esposto nella Teoria dei sentimenti morali (1759). In quest’opera fondamentale del padre dell’economia Politica moderna, la gentilezza (kindness, dove kind definisce anche il tipo, la razza) è annoverata tra le passioni sociali, quelle rese particolarmente piacevoli e convenienti da una “simpatia raddoppiata” (nell’edizione originale della Teoria si legge redoubled sympathy): la generosità, l’umanità, la compassione, l’amicizia reciproca e la stima, la “benevolenza” (benevolence). Per simpatia Smith intende la capacità di identificarsi e mettersi al posto dell’altro e di comprenderne i sentimenti in modo da poterne ottenere l’apprezzamento.

Le norme sociali, pertanto, non possono che spingere verso modelli di solidarietà e integrazione sociale.

In questi casi prendiamo parte sia alla soddisfazione della persona che prova tali passioni sociali sia di quella di chi ne è oggetto (A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. Lecaldano, BUR, Milano 1995, p. 131). Tra le persone che la natura ci segnala come oggetti di una nostra particolare beneficenza, sono proprio quelle che hanno già mostrato beneficenza verso di noi. È la natura, non a caso, che ha fatto gli uomini per questa “reciproca gentilezza” (mutual kindness), così necessaria per la loro felicità, facendo sì che ogni uomo diventi oggetto particolare di gentilezza per quelli verso i quali è stato gentile (kind) (ivi, p.

446).

Sempre nella Teoria Smith impiega anche il termine (che ricorre più frequentemente) benevolence, benevolenza, per mostrare che “nessun uomo benevolo perde mai del tutto i frutti della sua benevolenza”. Kindness is the parent of kindness (cfr. ivi, p. 447). Così, il favore e la predilezione che, quando non c’è invidia, attribuiamo naturalmente alla grandezza (greatness), si accrescono quando a essa uniamo saggezza e virtù (ivi, p. 448).

Il nostro “uomo interiore” (qui Smith guarda allo stoico Marco Aurelio), la ragione che guida la nostra condotta, quando siamo gentili e benevolenti verso gli altri, ci rivela a noi stessi “l’amore per ciò che è onorevole e nobile, l’amore per la grandezza, la dignità e la superiorità della nostra natura” (ivi, p.

295). Smith ammette persino, come proiezione macrocosmica della gentilezza, una “benevolenza universale”, quando “il nostro benvolere non è circoscritto in alcun confine, ma può estendersi fino ad abbracciare l’immensità dell’universo” (ivi, p. 462).

La versione di Nietzsche

Nell’età tardo-moderna, la posizione di Nietzsche si rivela assai indicativa, soprattutto se riletta alla luce della “morale della compassione” del suo maestro Schopenhauer che egli critica. Nell’aforisma 49 (intitolato “benevolenza”, Wohlwollen) del primo volume di Umano, troppo umano (1878), egli mostra che fra le piccole cose, infinitamente numerose ed efficaci, a cui la scienza deve badare, più che a quelle grandi e rare, esiste la benevolenza, ossia “quelle espressioni di sentimenti gentili (freundlich) nei rapporti con gli altri, quel sorriso dell’occhio, quelle strette di mano, quella gradevolezza di cui quasi ogni umano fare è di solito rivestito.

Ogni insegnante, prosegue Nietzsche sempre nello stesso aforisma, ogni funzionario aggiunge questo ingrediente a ciò che per lui è dovere; è una continua attivazione di umanità, sono per così dire le onde della sua luce, nelle quali tutto si sviluppa; […]. La bonarietà, la cordialità, la cortesia del cuore sono correnti sgorganti in perpetuo dall’istinto altruistico, e hanno contribuito alla formazione della civiltà molto più potentemente di quelle molto più celebrate manifestazioni di esso che si chiamano compassione, misericordia e abnegazione. Ma si usa tenerle in poco conto, e in realtà in esse non c’è molto di altruistico. La somma di queste piccole dosi è tuttavia imponente, la loro forza complessiva è una delle forze più grandi” (F.

Nietzsche, Umano, troppo umano I, Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 1979, p. 55).

Nietzsche mostra chiaramente che la gentilezza, se intesa come una forma “nobile” di altruismo (diversa dalla semplice compassione), dipende proprio da quel “trionfante sì pronunciato a se stessi” di cui egli parla ampiamente nella Genealogia della morale, (Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 1984, p. 26). L’atteggiamento di cortesia, inoltre, è il contrario del risentimento, perché l’uomo nobile, osserva ancora Nietzsche nella Genealogia, è gentile persino e soprattutto verso i propri nemici, giacché “non sopporta alcun altro nemico se non quello in cui non ci sia nulla da disprezzare e moltissimo invece da onorare” (ivi, p.

29).

L'educazione permanente dello spirito di Bergson

Il 30 luglio 1885, il filosofo francese Henri Bergson (premio Nobel per la Letteratura nel 1927), in occasione della distribuzione dei premi di fine anno al liceo di Clermont-Ferrand, pronuncia un discorso dedicato proprio alla politesse, alla “gentilezza”, che in alcuni passaggi diventa sinonimo di “buona educazione”.

Bergson rivela che la gentilezza non è soltanto uno specchio della civiltà (un atteggiamento di rispetto verso gli altri in nome dell’uguaglianza, sempre circoscritto all’interno della posizione ricoperta da ciascuno in società), ma anche qualcosa di assai più profondo: è un’educazione permanente dello spirito, per rendere l’uomo simile all’opera d’arte, facendo così penetrare tra le anime une sympathie mobile et légère.

Esattamente quella superiorità morale di chi esercita la facoltà di “rinunciare, all’occorrenza, alle abitudini che si sono contratte o persino alle disposizioni naturali che si è riusciti a sviluppare in se stessi, la facoltà di mettersi nei panni degli altri, di interessarsi alle loro occupazioni, di pensare con la loro testa, di rivivere la loro vita, in una parola di dimenticarsi di se stessi” (H. Bergson, La buona educazione, in Educazione, cultura, scuola, a cura di M.T. Russo, Armando, Roma 2000, p. 63).

La superiorità morale appena evocata rimanda, quale suo diretto correlato, a quella educazione eccezionale che “presuppone certe qualità del cuore e molte qualità dello spirito, che consiste, in fondo, nella perfetta libertà dell’intelligenza” (ivi, p.

64). La gentilezza “educante”, così potremmo definirla in termini bergsoniani, che investe lo spirito, i modi, il cuore, ci introduce come in una “repubblica ideale” (ivi, p. 66), “vera città dello spirito”, “dove la libertà sarebbe la liberazione delle intelligenze, l’uguaglianza un’attribuzione equa della considerazione e la fraternità una simpatia delicata per le sofferenze della sensibilità”. Se dovessimo poi trovare qualcosa che predisponga a essa, “sarebbero gli studi disinteressati”, “gli studi classici” (ibidem).

Qui, si badi, non si tratta della politesse artificielle de l’esprit che è data dalla semplice frequentazione del mondo, “ma quella che nasce naturalmente dall’accordo e dal sodalizio delle intelligenze” (ivi, p.

67). Aristotele, ricorda in conclusione Bergson, ha mostrato come proprio in una repubblica in cui tutti i cittadini fossero amici della scienza e della speculazione filosofica, essi “sarebbero amici gli uni degli altri” (ivi, pp. 67-68). Pertanto, la discussione potrebbe divenire meno aspra laddove essa si muova tra idee pure, in quanto l’intolleranza “è soltanto una certa incapacità di isolare il pensiero dall’azione” (ivi, p. 68). La gentilezza, se viene intesa in questo modo, non è un lusso, conclude Bergson, ma “un’eleganza della virtù” (ibidem): “alla grazia essa unirà la forza, il giorno in cui, propagandosi progressivamente, sostituirà dappertutto la discussione alla disputa, attutirà l’urto delle opinioni contrarie, e condurrà i cittadini a conoscersi meglio e ad amarsi meglio gli uni gli altri” (ibidem).

Da un punto di vista pragmatico, possiamo affermare che la gentilezza rappresenta quella dose imprescindibile di humanitas funzionale ad accogliere il punto di vista dell’altro, “mettendosi al posto di qualcuno”, tra l’atto del “riconoscimento di” e quello del “riconoscersi in”.

A tal riguardo, il filosofo e psicologo pragmatista americano George Herbert Mead, in Mente, sé e società (1934), spiegava che entrambi i processi sono implicati nel processo sociale, proprio laddove si diventa consapevoli dell’altro come tale identificandosi “simpateticamente” con lui (Mead aveva presente Smith), assumendo il suo atteggiamento “verso la situazione sociale data e il suo ruolo in essa e rispondendo così implicitamente a quella situazione come egli fa o sta per fare esplicitamente” (G.H.

Mead, Mente, sé e società, a cura di R. Tettucci, Giunti, Firenze 2010, pp. 376-377).

Su queste basi, “l’atteggiamento che noi identifichiamo nell’adulto come atteggiamento di simpatia, ha origine da questa stessa capacità di assumere il ruolo dell’altra persona con la quale un individuo è socialmente collegato” (ivi, pp. 449-450). E pertanto, conclude Mead, “noi tendiamo a riservare il termine ‘simpatia’ a quelle azioni e a quegli atteggiamenti fondati sulla gentilezza che sono i fondamentali legami nella vita di ogni gruppo umano” (ivi, p. 450).

Leggi la prima puntata della serie: La gentilezza come ponte tra se stessi, il prossimo e la società.

Leggi la terza puntata della serie: La democrazia è l’unica forma politica in cui la gentilezza si realizza a pieno.