Sono 60 milioni i migranti forzati. Lo ha detto don Ermis Segatti, all'incontro Obbligati a fuggire. L’immigrazione forzata nel mondo nella sala conferenze della parrocchia San Vincenzo de Paoli. Il sacerdote, amatissimo a Torino, in prima linea sui temi dell'integrazione sociale e religiosa, è docente di teologia morale all'Università Cattolica. Dopo Riforma e Controriforma, sotto il controllo dell'Inquisizione, si giunse al culmine delle conversioni religiose forzate, dal cattolicesimo al protestantesimo e viceversa, ma anche dal cristianesimo all'Islam e della conseguente emigrazione religiosa.
Erano già apostasie per gli Inquisitori e sono ancora punite con la morte dai salafiti ai nostri giorni.
I migranti forzati di oggi non fuggono per motivi religiosi, ma per fame e per guerra: 60 milioni in tutto lo scorso anno. Cercano dapprima rifugio nei Paesi in via di sviluppo come Pakistan, sotto la scure dai talebani, o Yemen, sotto i bombardamenti della Arabia Saudita. Per sottrarsi ai signori della guerra, finiscono così in mano agli integralisti salafiti. Ma la disperazione la fa da padrona per i somali, per esempio. pur di religione musulmana. Sono giunti in quasi 6mila in Italia nell'ultimo anno, dei 13 mila in tutto partiti dalla Libia.
Sono il doppio dell'anno precedente, di cui il 12 per cento ha già trovato lavoro.
La mostra fotografica sui profughi somali
Sergio Durando, direttore della Pastorale migranti ha citato nel suo intervento un proverbio africano, secondo cui la speranza è come un sentiero che diventa riconoscibile se si ci si cammina sopra più e più volte, altrimenti scompare. In una versione metafisica Martin Heidegger parlava dei sentieri interrotti che si perdono nei boschi, dove la gente non sa più procedere, ma che i guardaboschi e i taglialegna conoscono a menadito. Fuor di metafora: questo è l'Anno della misericordia e più che mai c'è bisogno di pastori dell'essere heideggeriani. Più semplicemente di buoni samaritani che vengano incontro e coltivino la speranza dei profughi.
Non come il vescovo di Vienna, criticato all'incontro, che si è accorto dell'emergenza immigrazione solo di fronte ai 72 morti in un camion, su un'autostrada austriaca.
È lo stesso messaggio della mostra fotografica “Rafaat – Sguardo dai campi profughi del Somaliland”, di Suad Omar e Davide Rigallo in via Arsenale a Torino. Rafaat in lingua somala significa sofferenza, registrata e fotografata nei campi profughi, durante missioni a Hargeysa e Berbera, con il programma umanitario Mida Somalia. Gli scatti documentano i momenti principali del viaggio di giovani somali disperati dal sud, dove Somalia e Kenya combattono i ribelli salafiti. ll viaggio della speranza prosegue nel deserto, fino al Mediterraneo, per arrivare in Europa o in Turchia, dove fanno ritorno gli immigrati irregolari.
Secondo Monica Cerruti, assessore regionale alla cooperazione internazionale, gli obiettivi dei fotografi hanno messo a fuoco la drammatica situazione dei migranti e la necessità attualissima di costruire un'Europa capace di accogliere e di edificare ponti e non muri. Un esempio di muro contro l'emigrazione italiana è stato il ventilato referendum contro i più di 50mila transfrontalieri che varcano il confine svizzero. Gli italiani che emigrano all'estero, in Germania, Francia, Brasile, son sempre più numerosi, soprattutto da Lombardia, Veneto, Lazio, Piemonte: 150mila lo scorso anno. La provincia di Torino è terza sul territorio per numero migranti con 300 persone in partenza da Bobbio Pellice che di abitanti non ne ha nemmeno 600.