Magistrati ed alti dirigenti non possono vedere decurtati i propri stipendi  a causa della crisi che attanaglia il Paese. E’ quanto praticamente ha stabilito la Corte Costituzionale con sentenza 11.10.2012 n°223 con la quale ha dichiarato incostituzionali alcune norme della legge 30 luglio 2010, n. 122. La decisione della Corte non ha avuto il clamore che meritava per gli effetti dirompenti sulla finanza pubblica.

Il governo Berlusconi, al fine di contenere la spesa pubblica, aveva bloccato gli aumenti contrattuali agli statali e ridotto del 5% gli stipendi superiori ai 90.000 € e del 10% gli stipendi superiori ai 150.000 euro.

 Inoltre, aveva previsto il blocco di alcuni incrementi automatici della retribuzione dei magistrati.

Per gli impiegati pubblici il disegno di legge di stabilità per il 2013 ha previsto una proroga delle misure in questione, vista la necessità di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. Di contro molti magistrati si sono rivolti ai TAR i quali hanno sollevato numerose eccezioni di incostituzionalità accolti con la sentenza citata.

Secondo la Corte delle leggi , infatti, i meccanismi di adeguamento automatico delle retribuzioni sono stati previsti “in attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardato anche sotto il profilo economico” evitando che i magistrati “siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri” .

Peraltro la Corte aveva già affermato che l’indipendenza degli organi giurisdizionali  si realizza anche mediante “l’apprestamento di garanzie … concernenti, fra l’altro,oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico” (sentenza n. 1 del 1978). Ne consegue che la norma che attenua tali automatismi va cassata, unitamente alla norma che interviene sull’indennità speciale dei magistrati.

A parere dello scrivente la giusta esigenza di salvaguardare l’autonomia della magistratura andrebbe contemperata con la necessità di rapportarne la retribuzione ai risultati raggiunti. Gli automatismi della progressione della carriera e delle retribuzionii, infatti, sono da ritenersi una delle cause della inefficienza dell’azione giudiziaria, che frustra il diritto costituzione del cittadino ad ottenere giustizia in tempi ragionevoli.

Non convince, per gli effetti che ne derivano, nemmeno la censura dei tagli degli stipendi degli alti magistrati e dirigenti pubblici. Indipendentemente dalla dizione usata dal legislatore, secondo la Corte, non di tagli si tratta bensì di imposizione fiscale.

Posta la natura fiscale dei tagli, la Corte ha argomentato che l’introduzione di una imposta speciale  “in relazione soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni viola … il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante” e determina un “irragionevole effetto discriminatorio”.

A mio avviso, i tagli miravano a ridurre la spesa dello Stato e degli Enti pubblici. Inoltre, alti magistrati e manager pubblici non si possono mettere sullo stesso piano dei manager privati.