Ci sono paesi, come l'Italia, in cui gli ospedali rappresentanoil senso più alto della civiltà e della solidarietà umana, dove ci affidiamosperanzosi alle cure dei medici, dove accostiamo per qualche secondo lamacchina per far passare le ambulanze. In questi paesi la figura del medico èricercata, apprezzata e salvaguardata da tutta la comunità, e gli ospedali sonoal pari delle chiese, luoghi sacri in cui la sofferenza viene lentamenteestirpata, per quanto possibile
Ci sono poi paesi, come la Siria, devastata da una lungaguerra intestina, dove le più elementari forme di convivenza sociale sonosaltate, rendendo più disumana una guerra che già lo è intrinsecamente.
Iribelli, jihadisti e non, e le Forze Armate governative di Assad danno vita ascontri all'ultimo sangue per prendere metri e conquistare gli ospedali, in unasorta di macabro Risiko. Peggio ancora gli ospedali sono veri e propriobbiettivi che i lealisti bombardanosenza remora, per evitare che i ribelli vengano curati. Cercano di uccidere imedici perché non aiutino i feriti, così come uccidono i giornalisti perchè il mondo non sappia degli orrori che sisvolgono. In questa dolorosa scena che la storia apparecchia ogni qual voltanasca una guerra, le persone muoiono, e con esse le loro storie e i lorofinali.
Come quella di Molhem Barakat. Fotoreporter di soli 17 anni,è morto il 23 dicembre negli scontri tra ribelli e lealisti davanti ad unospedale di Aleppo.
È morto svolgendo il suo lavoro, a dire il vero facendo ciòche più amava fare: fotografare. Allo scoppio della guerra nel 2011, a soli 15anni, decise di seguire suo fratello arruolatosi con i guerriglieri per lalibertà e di fotografare tutte le loro azioni.
La sua era una passione sincera,così pura che, una volta perso tutto, decise di sacrificare la sua adolescenzaper testimoniare la guerra civile siriana.
E mentre, ancor bambino, sidestreggiava in mezzo a spari e colpi di mortai tra i meandri di antiche cittàdel Mashreq protetto solo dalla sua vecchia macchina fotografica, la famosa agenziaReuters lo notò, gli fornì tutta la costosa attrezzatura e decise di comprare isuoi scatti. La realizzazione di un sogno per chi deve sopravvivere in unarealtà distrutta.
Le sue fotografie raccontano la quotidianità della guerra, lacalma apparente su cui aleggia la viva tensione per una battaglia certa, imomenti di relax in cui i giovani ribelli riescono ad accennare un sorriso neiloro sguardi già adulti; raccontano la paura della morte, e l'inno a rimanerevivi, raccontano il cambiamento radicale di macellai, operai, muratori,disoccupati diventati improvvisamente eroi moreschi che si battono per lalibertà. Nei suoi scatti vince la desolazione di moschee distrutte, di credentiche pregano in piccole viuzze fatiscenti, dello sfondo vuoto e secco di bambiniche giocano a calcetto.
Molhelm e la storia si sono tenuti per mano, egli èstato i suoi occhi, monito futuro per le guerre che inesorabilmente verranno.
Èstato il ragazzino che con le sue immagini ha mostrato il mondo che vorrebbemalgrado tutto, riuscendo a catalizzare l'attenzione sull'innocenzafanciullesca che si ritrova protagonista nel terrificante teatro della morte.
Molhem Barakat ora non c'è più. Di lui rimane il ricordodegli amici ribelli con cui ha condiviso per due anni pane e acqua. Di luirimane una fotografia in cui abbozza un sorriso sincero nonostante gli orroriche devastano i suoi occhi, occhi enigmatici, un po' bambini e un po' adulti, i corti riccioli neri che accarezzano il suo volto, e una consapevolezza: quelladi essere stato storia e di essere morto facendo ciò che amava: fotografare.