Omicidio, disastro ambientale e omissione di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Queste sono le accuse con cui ieri il tribunale di Taranto ha condannato in primo grado ben 27 dirigenti dell'Ilva. Tutti reati, secondo il giudice, commessi in maniera colposa per i quali quindi le pene sono state in qualche caso più alte di quanto richiesto dall'accusa: nove anni e mezzo a Sergio Noce, ex direttore tra l'82 e l'84; e altri nove anni e due mesi per Attilio Angelini, dirigente dall'84 all'87. È l'edizione on line del "Fatto Quotidiano" a riportare la notizia delle condanne.

I fatti risalgono tutti al periodo in cui l'Ilva si chiamava ancora Italsider ed era a gestione pubblica. Molti dei nomi presenti nella lista dei condannati di ieri sono comunque gli stessi oggi sotto indagine sempre da parte della procura tarantina, tra i quali anche appartenenti alla famiglia Riva, entrata in scena a metà degli anni 90. Fabio Riva, figlio di Luigi, da poco deceduto, è stato infatti condannato a sei anni di reclusione per l'accusa di disastro ambientale.

I magistrati titolari dell'inchiesta hanno rilevato, all'interno degli impianti pugliesi, quello che è stato definito come una prassi di violazioni gravi, manifeste e ripetute, che avrebbero anche causato la morte di ben 21 lavoratori (per il quale il nesso causa-effetto è stato provato) a causa di tumori causati da amianto e altri materiali contro i quali mancavano le difese necessarie.

I dirigenti quindi, consapevoli e informati, avrebbero accettato il rischio, corso dai lavoratori ovviamente, e dovuto alle sostanze tossiche con cui entravano ogni giorno in contatto. L'unico imputato assolto è stato infine il dirigente giapponese, Hayo Nakamura.

Un'altra pagina triste e indecorosa per la storia industriale italiana è stata dunque scritta. Potremmo, e vorremmo, augurarci che sia l'ultima. Ma in questo caso l'augurio potrebbe suonare come una probabile e possibile mera illusione.