Si fanno sempre più flebili le speranza di una tregua a Gaza dove, dopo la sanguinosa giornata di ieri che ha fatto registrare oltre 100 morti, il ventitreesimo giorno di guerra è cominciato con il bombardamento di una scuola dell'ONU, nel campo profughi di Jabaliya, dove avevano trovato rifugio alcuni dei 200 mila sfollati, lasciando tra le macerie almeno 23 morti, in maggioranza donne e bambini. Un portavoce dell'Unwra, l'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ha precisato che l'esercito israeliano, dal quale non sono giunte spiegazioni ufficiali, era a conoscenza dell'esatta ubicazione della scuola.
Dalla stessa fonte, viene anche la denuncia di depositi di razzi di Hamas ritrovati in alcune scuole gestite dall'Unwra; ne è seguita la richiesta, rivolta ad entrambe la parti in conflitto, di rispettare l'inviolabilità degli edifici delle Nazioni Unite. L'episodio di oggi, il secondo nel giro di pochi giorni, risulta ancora più drammatico alla luce del fatto che i civili palestinesi si erano rifugiati nell'edificio in seguito all'avvertimento da parte dell'esercito israeliano che il loro quartiere sarebbe stato bombardato.
Il dibattito in Israele: continuare o fermarsi?
Le notizie della carneficina in corso nella Striscia di Gaza sembra intanto incrinare l'appoggio incondizionato di cui ha finora goduto in Israele l'operazione "Confini sicuri". Avranno infatti sicuramente conseguenze sull'opinione pubblica delle parole dell'ex presidente Shimon Peres, secondo cui "L'opzione militare deve considerarsi esaurita.
La soluzione alla crisi deve ora essere ricercata per via diplomatica. Gaza è stata strappata dalle mani del presidente Mahmoud Abbas e la cosa giusta da fare è restituire la Striscia di Gaza ad Abbas". Il governo di Tel Aviv, da parte sua, pare ancora incerto sulla strategia da intraprendere: continuare l'attacco o aprire con decisione all'ipotesi di tregua come richiesto dalle diplomazie internazionali.
Una indecisione che comincia a provocare irritazione nei vertici militari in attesa dell'ordine di continuare o di ritirarsi.
La diplomazia richiamata in patria
Anche il fronte internazionale, finora abbastanza compatto nel sostegno di Israele, se non altro per il solo fatto di non assumere serie iniziative di condanna, comincia a mostrare segni di cedimento.
Oggi, infatti, gli ambasciatori di Cile, Perù e El Salvador sono stati richiamati in patria come segno di protesta per i bombardamenti indiscriminati, aggiungendosi così a quelli di Ecuador e Brasile rientrati nei loro paesi nei giorni scorsi. Particolare rilievo assume la decisione del Cile in quanto membro temporaneo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Appello palestinese alle nazioni arabe
Anche sul fronte palestinese si registrano divergenze in merito alla richiesta di tregua umanitaria avanzata da Hamas. Richiesta in un primo momento sostenuta dall'OLP, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ma successivamente stoppata dalla dichiarazione di un portavoce delle milizie secondo la quale "non c'è cessate il fuoco senza la fine dell'aggressione e la revoca dell'assedio".
La via diplomatica sollecitata da Hamas non significa comunque la rinuncia ad altre opzioni, come testimonia l'appello che il portavoce Sami Abu Zuhri ha rivolto ai governanti arabi affinché si assumano le loro responsabilità rispetto al tentativo israeliano di eliminare Gaza. Appello rivolto nel nome dei bambini di Gaza, vittime delle bombe e dell'indifferenza.