Un agguato che fa temere la rinascita di Cosa Nostra. Ad uccidere il 67enne boss palermitano Giuseppe Dainotti è stato un vero e proprio commando mafioso. Un’esecuzione che per gli inquirenti potrebbe segnare una nuova sanguinosa stagione di omicidi e faide tra le cosche mafiose. A cadere sotto i colpi di arma da fuoco è infatti un esponente di spicco della Mafia siciliana, un fedelissimo del boss capomafia Salvatore Cancemi. A venticinque anni dalla strage di Falcone e Borsellino, soffiano nuovamente forti i venti di guerra di Cosa Nostra.

Una sentenza annunciata

È stato sparato alle 7,50 del mattino mentre girava in bicicletta in via D’Ossuna nel quartiere Zisa di Palermo. Affiancato da due emissari della mafia, Giuseppe Dainotti non ha avuto scampo ed è morto sul colpo. Che fosse un obiettivo ne era al corrente da anni. Il curriculum mafioso rendeva Dainotti un bersaglio eccellente per i suoi nemici interni a Cosa Nostra. A volerlo morto era soprattutto il boss Giovanni di Giacomo, ex partner d’affari di Dainotti nei traffici di droga degli anni ‘90, il quale dal carcere aveva dato l’ordine di eliminarlo assieme ad altri esponenti mafiosi. Di Giacomo non voleva perdere il comando del mandamento e si stava muovendo per impedire che avesse successo il complotto orchestrato da Dainotti e dagli altri mafiosi, ordinando esecuzioni a tappetto.

Chi era Dainotti

Tre anni fa era stato scarcerato dopo 25 anni di carcere, in quanto aveva beneficiato della norma approvata nel 2000 – pensata dal legislatore per quegli imputati che certi di subire la condanna più dura, possono decidere di scontare solo trent’anni se scelgono il rito abbreviato. Dainotti avrebbe dovuto scontare l’ergastolo per l’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, avvenuto nel 1983, ma nel 2014 è stato scarcerato proprio grazie alla legge del 2000.

A capo del mandamento di Porta Nuova, il boss palermitano aveva già subito un processo per aver partecipato, il 13 agosto 1991, alla rapina dell’ufficio di Credito su Pegno della Sicilcassa di Palermo. Il furto aveva fatto finire nelle casse della mafia un bottino miliardario – l’equivalente di 9 milioni di euro - che all’epoca fece molto scalpore.

Fu infatti chiamata “La rapina dell’oro dei poveri” e considerata dalla Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano “uno dei delitti più gravi realizzati dalla mafia”, naturalmente dopo i bagni di sangue”. La funzione di Dainotti era quella di custode della refurtiva.

La mafia può diventare nuovamente potente

A dirlo è stato Renato Cortese, questore di Palermo, una settimana fa. Le scarcerazioni dei boss, ha detto il questore durante un seminario sulla lotta alla mafia, sono pericolose perché oggi la mafia è in cerca di leadership in grado di ricostituire l’antica forza dell’organizzazione di Cosa Nostra. Se una testa pensante riesce a ricompattare le fila di Cosa Nostra può tornare potente quanto prima. Le forze dell’ordine stanno sempre monitorando tutti i segnali e le scarcerazioni di nomi eccellenti, perché le organizzazioni sono sempre molto ben radicate sul territorio, aveva concluso Cortese.