Voci. Voci che continuano a susseguirsi, accavallarsi, fondersi in racconti sempre più simili tra loro. Voci che per trent'anni sono state bisbigli sommessi tra gli addetti ai lavori e che dallo scorso 5 ottobre sono divenute un boato.

Il mito di Harvey Weinstein, 65 anni, produttore cinematografico co-fondatore di Miramax e della The Weinstein Company, considerato per un trentennio tra i mostri sacri di Hollywood con settanta Oscar all'attivo per i film a cui ha lavorato e più di trecento nomination, si sgretola sotto le accuse di molestie e violenza sessuale mosse da alcuni dei volti femminili più noti dello star system.

Le prime a rompere il silenzio sono state le attrici Rose McGowan e Ashley Judd, che nell'inchiesta condotta dal New York Times hanno rievocato immagini di stanze d'albergo ed impietose richieste, invitando chi sapeva a farsi avanti.

A loro si sono aggiunte, giorno dopo giorno, le denunce di numerose attrici, tutte traghettate agli albori della propria carriera alla notorietà dagli abusi di Weinstein.

Da Gwyneth Paltrow ad Angelina Jolie, passando per Léa Seydoux, Cara Delevingne, Asia Argento e molte altre.

A destare particolare dibattito, l'esperienza dell'attrice e regista italiana, che ha minuziosamente ricostruito i ricordi di una sera del 1997 quando, invitata ad un fittizio party della Miramax in occasione del Festival di Cannes, era stata condotta in una camera d'albergo dove, ad attenderla, vi era Weinstein con la richiesta di un massaggio, che si è scoperto essere una consuetudine preliminare di buona parte degli incontri.

La Argento, allora ventunenne, ha ripercorso quello che ha definito un "incubo" durante il quale, piegata dal timore reverenziale verso il produttore e dalla sua sopraffazione fisica, finì per assecondare le sue richieste.

Sono seguite le critiche e gli insulti di chi, puntando il dito contro l'accondiscendenza dell'attrice, ha giudicato le azioni dell'uomo non come violenza sessuale quanto naturale conseguenza della disponibilità della Argento.

Tuttavia, il panorama hollywoodiano, non solo femminile, sembra aver fatto fronte comune a sostegno di tutte coloro che hanno avuto il coraggio di condividere la propria traumatica esperienza definendole, come nel caso della pluripremiata Meryl Steep, delle "eroine".

A spezzare una lancia a favore di Weinstein il collega Oliver Stone, il quale lo ha definito «vittima di un sistema di giustizieri».

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Eppure, al di là delle parti, quello che sembra nutrire lo sconcerto generale è senza dubbio l'innegabile forza di un silenzio assordate, il mutismo di un mondo ovattato dove la comune consapevolezza si celava all'ombra dei riflettori, dove in molti sapevano ma, piuttosto che dissacrare l'idolo di una divinità terrena hanno preferito voltarsi dall'altra parte perché, in fondo, anche coloro che oggi puntano il dito hanno per ben trent'anni accettato il tacito accordo sul quale sembra fondarsi la propria scintillante realtà.

Intanto Weinstein è volato in Europa dove, secondo il TMZ, si starebbe disintossicando dalla sua «dipendenza dal sesso».

Il trentennale abuso di potere di un uomo che, consapevole del timore suscitato nelle giovani donne desiderose di successo, viene tradotto, dunque, in malattia.

Così la colpevolezza viene ridimensionata, la volontà giustificata, mitigata in un disturbo compulsivo al di fuori del lucido controllo.

Tuttavia, è nelle parole della due volte premio Oscar Emma Thompson che sembra celarsi la cruda realtà: «Non è un sesso dipendente, è un predatore. E' diverso. Ed è solo la punta dell'iceberg».