Carte false e una catena di complicità, a cominciare dagli alti gradi dell'Arma, andata avanti quasi dieci anni per coprire la verità su un pestaggio con esito mortale. Otto carabinieri, a cominciare dal generale Alessandro Casarsa, che all'epoca dei fatti dirigeva il gruppo Roma del comando provinciale, e il colonnello Lorenzo Sabatino, che era a capo del nucleo operativo capitolino, rischiano di essere processati per i depistaggi e i documenti alterati dopo la morte di Stefano Cucchi. Dopo il pestaggio nella caserma Appia, Cucchi non riusciva a camminare ma non si doveva sapere.

Stava male ma doveva sembrare come se dipendesse dalla sua tossicodipendenza.

Il 22 ottobre 2009, il geometra romano morì a 31 anni all'ospedale Sandro Pertini, una settimana dopo il suo arresto per droga. Gli otto carabinieri si andrebbero ad aggiungere ai cinque militari imputati nel processo bis in corso. Tre rispondono di omicidio preterintenzionale, altri due di falso e calunnia. Gli otto indagati, invece, sono accusati a vario titolo di falso, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia.

Stefano Cucchi, per la Procura macchina della menzogna

Sarebbe stata avviata dal comandante Casarsa la macchina della menzogna sulla morte di Stefano Cucchi. Una catena di bugie e falsi sul reale stato di salute del geometra per garantire l'impunità dei carabinieri della stazione Appia che lo fermarono, responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che nei giorni successivi ne determinarono il decesso.

Presso quella caserma, infatti, il geometra fu pestato per poi essere portato nelle ore successive nelle celle di sicurezza di Tor Sapienza, tra il 15 e il 16 ottobre del 2009.

Ne è convinta la Procura di Roma che ha chiuso l'indagine con un pesantissimo atto d'accusa nei confronti di otto carabinieri. Il procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò si preparano a chiedere il rinvio a giudizio degli indagati.

Dall'inchiesta appena conclusa, infatti, è emerso che furono manipolate almeno due relazioni di servizio che, con una versione falsa dell'accaduto, arrivarono sino all'allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, chiamato a riferire in Parlamento del ragazzo morto una settimana dopo il fermo dei carabinieri.

Secondo la Procura, l'attuale generale Casarsa, ordinò di modificare la relazione inerente le condizioni di salute di Cucchi con la complicità dei colonnelli Francesco Cavallo e Luciano Soligo, e del luogotenente Massimiliano Colombo Labriola.

In particolare, i militari Casarsa, Cavallo, Di Sano, Colombo Labriola e Soligo, sono indagati per falso ideologico. Quest'ultimo ha di fatto ammesso di aver fatto sottoscrivere le relazioni alterate ai sottoposti, come da ordine gerarchico. Dai documenti sparirono i riferimenti alla difficoltà di camminare, come ai malori, giramenti di testa e tremori che il detenuto aveva lamentato.

Dopo una prima nota, ne fu redatta un'altra con la data truccata del 26 ottobre, in cui Cucchi avrebbe lamentato dolori causati dal letto, dal freddo e dalla magrezza. Altri ufficiali sono indagati per omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Quando nel 2015, la Procura chiese di sequestrare questi documenti, il colonnello Lorenzo Sabatino, allora comandante del gruppo operativo, secondo il pm, ben sapendo che erano stati falsificati, omise di fornirli.

E il registro del fotosegnalamento, fu corretto con il bianchetto proprio sul nome di Cucchi.

Stefano Cucchi, la sorella Ilaria: 'Una vittoria'

Ilaria, sorella di Stefano, ha commentato favorevolmente la chiusura da parte della Procura di Roma del nuovo filone d'indagine sui depistaggi relativi alla morte del fratello. Ha considerato questa svolta una vittoria sia per la sua famiglia che per la giustizia. Un passaggio fondamentale per Ilaria, dopo nove anni di sofferenza trascorsi in processi sbagliati: finalmente, chi avrebbe insabbiato la verità, sarà chiamato a risponderne.

Terminata l'inchiesta, gli indagati che durante gli interrogatori hanno fornito versioni tra loro contrastanti, o che durante il processo bis si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, hanno 20 giorni di tempo per chiedere d'essere interrogati o presentare memorie difensive.