Nato a Buenos Aires nel 1919, J. Rodolfo Wilcock è morto nel 1978 nella sua casa di campagna a Lubriano, distante qualche decina di chilometri da Roma. Argentino di origine trapiantato in Italia - approda a Roma negli anni Cinquanta -, brillante traduttore di alcuni capolavori della letteratura francese e anglosassone (Flaubert, Marlowe, Shakespeare).
Bisbetico solitario - asseriva di non leggere giornali, di non guardare la televisione, di non viaggiare da anni -, giocoliere in egual misura della vita e delle parole, diede vita con la sua scrittura a bislacche costruzioni narrative antifrastiche, secondo una lezione appresa, non soltanto da Borges - che gli fu amico -, ma da Diderot.
Sia in prosa sia in versi, J. Rodolfo Wilcock si destreggia con un italiano egregiamente acquisito: un'operazione raramente raggiunta da uno straniero, accostabile a quella di Nabokov per l'inglese; a tal punto da chiedere di essere definito uno scrittore italiano. Riceverà la cittadinanza italiana post mortem, solo nel 1979.
È stato definito un irregolare del Novecento, paragonabile a Tommaso Landolfi e a Ennio Flaiano. La casa editrice milanese Adelphi, che ne detiene i diritti, ha già riproposto, tra gli altri scritti, Reato di scrivere - un pamphlet al vetriolo sull'establishment culturale italiano e soprattutto sui salotti letterari, da cui si teneva alla larga - e I due allegri indiani: in cui Wilcock sperimenta una pratica innovativa di scrittura, da lui stesso teorizzata e dagli esiti decisamente esilaranti, consistente in un frazionamento da parte dell'Autore in una moltitudine di Autori.
Dallo scorso mese è invece nuovamente sugli scaffali delle librerie, ventiquattro anni dopo l'ultima ristampa - in seguito ad un piano di riproposte dell'autore italo-argentino, di cui si auspicava da tempo il recupero -, un'opera di una comicità sottile e travolgente: La sinagoga degli iconoclasti (Adelphi, pagg. 216, euro 11).
Per Roberto Bolaño ha rappresentato un antidoto contro la tristezza "in giorni nei quali tutto faceva presagire solo tristezza", restituendogli l'allegria, come riescono a farlo solo i capolavori della letteratura che sono al contempo capolavori dello humor nero, come gli aforismi di Lichtenberg o il Tristram Shandy di Sterne.
L'opera si configura come una sorta di mini enciclopedia di personaggi immaginari legati, però, dalla comunanza di fatti stranamente insoliti e immersi in una dimensione tipicamente grottesca che a tratti sfiora il ridicolo, ingenerando situazioni di squisita comicità specie per la paradossalità di molte tra le tante trovate.
Jules Flamart, protagonista di uno dei trentacinque capitoli "monografici", seccato dei tanti vocabolari moderni in circolazione, "senza eccezione inadatti alla lettura continuata", realizza, "con flaubertiana pazienza", il suo romanzo-dizionario, che all'utile unisce il dilettevole: per cui le tante voci stilate sono corredate non da "osservazioni e divagazioni erudite", ma da brevi passi narrativi concatenati in modo che, a lettura finita, non solo il lettore ha piena padronanza delle voci, bensì si è dilettato nel seguire di pari passo lo sviluppo di una vicenda, "accattivante e movimentata, di tipo spionistico-pornografico", di cui l'autore non manca di servirci un assaggio.
Oppure Socrates Scholfield, altro personaggio di un ulteriore capitolo, che alle cinque prove classiche sull'esistenza di Dio ne aggiunge una sesta "meccanica", fondata su di un apparecchio costituito da due eliche di ottone incastrate che girando "ciascuna intorno all'altra e dentro l'altra" dimostrerebbero l'esistenza del Creatore.
E ancora: il capitano John Cleves Symmes, scopritore di un'apertura polare, detta il buco di Symmes, attraverso cui l'acqua del mare "si riversa continuamente sulla prima sfera interna, anch'essa popolata, come le tre restanti, da animali e vegetali": questo foro infatti è l'apertura delle cinque sfere concentriche di cui sarebbe costituita la terra.