Durante il primo ascolto è alta la probabilità di rimanere sbigottiti e di sverniciare un profluvio irriverente di «Oh no!», ad esprimere stupore e meraviglia, domandandosi preoccupati se non si sia per errore incappati nell'acquisto di un album nato dalla co-produzione di Abba, Smiths e Gloria Gaynor. L'ultimo lavoro dei Belle and Sebastian è un disco che ha il potere di sconvolgere in maniera trasversale l'ascoltatore. Chiunque conosca limitatamente il gruppo folk-pop scozzese non potrà che ricevere un'impressione straniante da 'Girls in Peacetime Want to Dance'.

Questi ormai non più giovanissimi ragazzi, in attività dal '95, famosi per le atmosfere dolci e trasognate e le liriche fiabesche, si sono reinventati con un incredibile azzardo disco. Il titolo dell'album, in questo caso, è un esplicito avviso sui contenuti.

Si parte con Nobody's Empire. La melodia non si discosta molto da quelle tipiche della band a cui siamo abituati, fatta eccezione per il chorus, in cui ci sono le prime avvisaglie della svolta. Quel che colpisce è però il testo, chiaramente autobiografico, in cui Stuart Murdoch descrive la condizione di debilità cronica in cui è costretto a vivere a causa della sua encefalomielite mialgica: «Lying on my bed, I was reading French/ With the light too bright for my senses/ From this hiding place, life was way too much/ It was loud and rough round the edges.» Allie è in linea con la precedente traccia: nulla di preoccupante.

Ma poi si giunge a The Party Line: la svolta disco qui è completa sin dal primo secondo. Si prosegue sulla stessa linea con la successiva The Power of Three, in cui sono decisamente gradevoli le frasi di synth ad intervallare le parti cantate. The Cat With the Cream, in quarta posizione, ridona serenità all'orecchio, riportandolo a sonorità note - così come farà la ballata Ever Had a Little Faith?

più avanti.

Tenera, melancolica, un soave quattro quarti scandito dai violini. B&S vecchio stile. Il brano crea un clima d'attesa dolce, in previsione della successiva Enter Sylvia Plath, lasciando immaginare scenari fiabeschi, una melodia soave, con archi distesi e un beat moderato. Invece accade ancora, come in precedenza: un abisso disco che spiazza.

Di nuovo, ma questa volta in maniera ancor più sconvolgente. Oltre sei minuti di elettroshock: in alcuni punti sembra la sigla lancio di un cartone d'animazione giapponese, stile Daitarn 3. Nel ritmo galoppante della disco music a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta è difficile immaginare di poter ritrovare il sottofondo acustico adatto al ricordo leggiadro della poetessa americana morta suicida a trent'anni. Ma dopo questo trauma si cambia, e The Everlasting Muse è un quasi-ritorno al classico, con sferzate jazz scandite dal contrabbasso e accenti folk ballabili che allineano il brano al resto dell'album. Delle rimanenti tracce merita menzione The Book of You.

Per quanto straniante possa risultare all'inizio, nel complesso 'Girls in Peacetime Want to Dance' è un album che restituisce il sorriso a chi l'ascolta, ed è in grado di far trascorrere un'ora in piacevole spensieratezza. Se poi si segue anche il consiglio dato in The Party Line, «Jump to the beat of the party line/ There is nobody here but your body dear», il tutto assume connotazioni ancor più positive.