C’è un pezzo d’Italia nella storia del neo Premio Nobel per la Letteratura, Bob Dylan. Questo pezzo d’Italia è la Calabria. Nella sua autobiografia, Chronicles, pubblicata da Feltrinelli nel gennaio del 2005 (traduttore e curatore Alessandro Carrera), Dylan scrive: “Mike was the sicilian father that I never had”. Mike, in realtà, è l’italo-americano Michele Porco (cognome orribile, ma autentico come tanti in Calabria), calabrese di Domanico, paesino delle Serre cosentine, “siciliano” solo per l’immaginario collettivo yankeeche sbrigativamenteidentifica qualsiasi italiano del sud sotto il grande sole della Sicilia.

Premio Nobel a Bob Dylan: il suo mito nato grazie ad un calabrese

L’incontro tra Bob Dylan e Mike Porco è raccontato in un libro, Il calabrese che fece grande Bob Dylan (edizioni Klipper), scritto dai giornalisti Luigi Michele Perri e Bruno Castagna nel 2006. Mike e Bob si conobbero nel 1960, quando il calabro-cosentino era emigrato negli Usa già da oltre un ventennio. Due ben diversi sradicamenti. Due migrazioni accomunate, però, dalla confluenza di altrettanti obiettivi di riscatto personale e sociale: la prima, rappresentata dalla vicenda di Porco, partito negli anni trenta dalla Calabria per andare a lavorare Oltreoceano e mantenere la propria famiglia.; la seconda, agli inizi del sessanta, incentrata sulla vitaon the road” di Bob Dylan, in giro per le strade d’America, alla ricerca della meta dell’autonomia individuale e del successo artistico.

Un sodalizio artistico indimenticabile

I due intrecciarono i loro destini nel posto più congeniale alle loro aspirazioni, in quel Greenwich Village di New York, dove giungevano gli emigrati italiani ed europei in ascesa ma anche intellettuali qualiJack Kerouac e Allen Ginsberg e gli artisti, come appunto Bob Dylan, decisi a vivere la vita controcorrente nel più irregolare quartiere della 'Grande Mela'.

Mike gestiva il Gerde’s Folk City. Bob, che non sapeva come sbarcare il lunario se non con la sua chitarra e le sue composizioni, chiese di esibirsi. Mike lo accolse nel suo locale. Lo fece con qualche scetticismo: non gli piaceva la voce gracchiante di quel mingherlino. Il Gerde’s era frequentato dal primo critico musicale del New York Times, Robert Shelton.

Per poter lavorare quello strano folksinger spiantato aveva bisogno della tessera sindacale. Ma era minorenne, non avrebbe potuto averla senza l’autorizzazione paterna. All’impiegato della Musicians Union disse d’essere orfano dei genitori e di non avere nessuno al mondo. Mike, in uno slancio di calabra generosità, firmò come tutore. E, così, poté porlo nelle condizioni di avere il primo contratto della sua carriera: novanta dollari a settimana, pranzo, cena e consumazioni gratis. Mike e Bob strinsero il loro rapporto, l’uno divenne amico dell’altro.

Il primo, addirittura, con un ruolo praticamente paterno, almeno sino a quando l’artista non spiccò definitivamente il volo. Come? Robert Shelton era diventato puntuale spettatore delle sue esibizioni.

Ogni volta, un’emozione, come successivamente ammise. Gli dedicò una recensione. E fu così che John Hammond, il guru della discografia americana, riuscì ad accaparrarselo per la Columbia Records. Fu il battesimo dell’artista.

Il nome di Bob Dylan, da quel momento in poi, campeggerà su tutti i giornali americani e su quelli di tutto il pianeta sino alle prime pagine di oggi, per il Premio Nobel. Neanche Mike lo avrebbe potuto immaginare.