Ieri sera, presso il Teatro Comunale di Santa Maria a Monte, davanti ad una buona cornice di pubblico, il gruppo toscano dei "Forty Days", composto da Giancarlo Padula (voce e tastiere), Dario Vignale (Chitarra), Giorgio Morreale (batteria) e Massimo Valloni (basso), ha presentato in anteprima i brani del suo album d'esordio, intitolato "The colour of change".

Il concerto

L'ottima acustica del teatro ha fatto sì che le indubbie qualità tecniche del gruppo e soprattutto l'amalgama e l'affiatamento dei suoi componenti, producessero circa un'ora e mezza di esibizione live assolutamente godibile, fluida e priva di cali di intensità.

Per tutta la durata del concerto le tematiche dell'album sono state sviluppate in maniera tecnicamente perfetta, praticamente senza sbavature ma, soprattutto, con una notevole immedesimazione da parte dei quattro musicisti, che hanno ottenuto, grazie alle loro qualità non soltanto musicali, il consenso del pubblico presente.

Pregevole è stata, inoltre, la scelta della coreografia, secondo uno stile che ha ricordato, per chi scrive, i Pink Floyd dei tempi di "Delicate sound of thunder": la serie di filmati che hanno accompagnato i vari brani, ha fatto sì che quanto veniva espresso sul palco con note, suoni e parole venisse tradotto in una serie di significative immagini, catturando conseguentemente non soltanto l'ascolto, ma anche la vista degli spettatori, e facendo sì che ogni messaggio giungesse più immediato.

Quello che ha colpito maggiormente della performance, e che in un certo senso può essere considerato un elemento di rottura rispetto ad una rock band tradizionale, è stata l'assenza del cosiddetto "front man": le qualità vocali di Giancarlo Padula non hanno prevalso sulla musica, ma sono state parte di un tutt'uno granitico, accarezzato dai riff di chitarra di Dario Vignale e dalla compattezza della sezione ritmica di Giorgio Morreale e Massimo Valloni, che sono riusciti a coniugare eleganza stilistica ed essenzialità.

In tutto questo, è spiaciuto, ma sarebbe come cercare il classico pelo nell'uovo, non essere riusciti ad ascoltare alcuni bis.

The colour of change

"The colour of change", il disco di esordio della band formatasi nell'agosto del 2014 e giunta, dopo diverse vicende, alla formazione attuale, parla di situazioni, pensieri e paure di un uomo alla soglia dei 30 anni nella nostra epoca.

Sicuramente non è un prodotto semplice, sia per le tematiche affrontate, sia per la complessità dei testi, sia, in ultimo, per le sonorità sviluppate, che risentono, in primo luogo, delle influenze dei Pink Floyd e del rock psichedelico, ma che ricordano, per altri versi, anche momenti del progressive rock degli anni 70 anche se, è bene dirlo, senza quegli eccessivi virtuosismi che spesso rendevano il genere difficilmente digeribile a chi ascoltava. In brani come "The Garden" o "Homeless" si possono inoltre avvertire passaggi che rimandano, per certi versi, a Radiohead e John Hiatt.

Disagio, incertezza e voglia di cambiare: temi che non sono soltanto legati all'età, ma a particolari situazioni della vita: ecco perchè questo album, pur nella specificità della storia che sviluppa, è rivolto a tutti: in "Looking for a change", il cui riff iniziale di chitarra rimanda la memoria a "Sorrow" dei Pink Floyd, si dice "Quando la vita ti prende a schiaffi, sorridi e prendi a schiaffi e non aspettare troppo tempo"; in "The garden" è espresso il desiderio degli amici, quelli veri, ed in "Homeless" si dice che "Davanti a me c'è una lunga strada di decisioni da prendere".

Disagio, incertezza e voglia di cambiare, ma anche una grande positività: nel brano finale "Four years in a while" si dice "Potrò piangere, potrò star male, ma alla fine ce la farò, come sempre": ecco perchè la storia di un uomo di 30 anni, raccontata secondo le migliori tradizioni dei concept album, può essere la storia di ognuno.