Dopo il nubifragio che l'ha colpita, che ha portato via con sé otto morti ed un disperso, e che ha comportato un massiccio intervento del dispositivo di protezione civile, Livorno si è svegliata, dopo la paura della notte precedente e gli interventi immediati della mattinata successiva, ed ha cominciato, nel momento di calma che segue, come un'ineluttabile necessità, quello della tempesta, a riflettere ed a guardarsi allo specchio per avere la triste consapevolezza delle ferite riportate.

Le ferite

Ad una prima occhiata, quella magari più superficiale, alcune di queste, le più profonde, hanno interessato alcune zone che possono essere definite storiche: Via di Salviano, ovvero l'arteria che collega la Via Aurelia con l'entroterra, la spiaggia dei Tre Ponti che non esiste più, e Piazza delle Carrozze, dalla quale parte, o meglio partiva, la funicolare che portava al Santuario di Montenero.

Ma non sarebbe giusto limitarsi a questo: è tutta una città che esce dal nubifragio profondamente ferita, e profondamente feriti sono i suoi abitanti, che vedono il loro amato lungomare violentato dalle esondazioni.

Riflessioni

Arrivando a Livorno da sud, la prima visione che colpisce, e che per molti commuove, è la vista del tratto di costa che dà sul Romito: specie al crepuscolo, il riflesso del sole che si abbassa all'orizzonte crea sulla superficie del mare riflessi azzurri e dorati che creano a chiunque una profonda emozione: adesso, attraversando il lungomare, la visione che si ha è quella di un acquitrinio limaccioso, che fino alla Gorgona assume colorazioni dal marrone al verdastro, ed il ritorno emotivo è soltanto quello di una profonda tristezza, che lascia dentro segni incancellabili.

Parafrasando Francesco Guccini in "Signora Bovary", passata la tempesta e fatto il conto dei danni, rimane da chiedersi quello che resta, e quello che resta è una profonda ferita da rimarginare. Chi conosce Livorno ed i livornesi, sa che esiste una Livorno che si ama ed una Livorno che si odia.

La Livorno che si ama e che si odia

Si ama la Livorno che si sveglia alle cinque del mattino e si ritrova alla stazione per andare al lavoro, quella che ogni domenica di sole, in qualunque stagione, si riversa sul lungomare, quella di Effetto Venezia e delle partite a carte che seguono al ponce al bar Civili. Si ama la Livorno che si sbatte ogni giorno per far tornare i conti e quella che popola ogni giorno il mercato centrale per fare la spesa.

Si ama la Livorno dei film di Virzì, delle canzoni di Piero Ciampi e di Amedeo Modigliani, degli Scarronzoni e dei Risi'atori.

Ma esiste anche una Livorno che si odia, ovvero la Livorno del menfreghismo, dei selfie beceri fatti senza il minimo rispetto per le disgrazie altrui e del "meglio disoccupati a Livorno che ingegneri a Milano", come se ai confini della città esistessero delle ideali Colonne d'Ercole. Si odia la Livorno del "m'importa assai" in ogni situazione, quella che, se c'è Livorno-Juventus, tifa Livorno finchè non segna la Juve, si odia la Livorno che espone con orgoglio la propria ignoranza perchè "noi siamo gente der popolo", come se essere "gente der popolo" fosse un alibi per coprire una sorta di repulsione all'automiglioramento.

Quello che resta

Quello che resta, come detto, è una profonda ferita da rimarginare: saranno necessari tempo e pazienza, e per tornare all'emozione della visione delle scogliere del Romito, si dovrà per forza puntare a chi fa sì che ci sia una Livorno che si ama, e sarà bello tornare a passeggiare sulla Terrazza Mascagni con in testa le parole di di Bobo Rondelli: "Viaggio d'andata, senza ritorno, bella Livorno...".

L'ultimo commento, magari potrà sembrare strano, è per Pisa ed i pisani, storici e campanilisti rivali dei livornesi: hanno esposto uno striscione con le seguenti parole: "Queste tragedie non hanno colore, vicini a Livorno ed al suo dolore". Considerando che, purtroppo spesso, l'offesa becera viene osannata, una sola parola può essere usata come commento: CHAPEAU.