Gennaio: il mese dei viaggi della memoria. Il MIUR, in collaborazione con l'UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) coinvolgerà anche quest'anno più di cento studenti nel tradizionale viaggio della Memoria ad Auschwitz. Il ministro Valeria Fedeli e il presidente dell'UCEI, Noemi Di Segni, accompagneranno i ragazzi scelti tra vari istituti d'Italia, tenendo conto dei vari progetti relativi alla Shoah realizzati nell'ultimo periodo. Tre giorni di viaggio durante i quali verranno visitati i luoghi simbolo della persecuzione nazista: dai campi di concentramento ai ghetti istituiti negli anni '40.

Il ricordo è la base e, allo stesso tempo, l'obiettivo di queste giornate. Lo scopo principale del Viaggio della Memoria e del Giorno della Memoria consiste proprio nel non dimenticare quello che è successo. Ma c'è un’altra nozione, altrettanto importante, che costituisce la chiave per raggiungere questa finalità: l'idea del viaggio, ossia lo spostamento necessario per arrivare nei luoghi prestabiliti.

Il viaggio e l'equilibrio

Il viaggio, fisicamente parlando, è uno spostamento. Spostamento che implica un punto, un luogo di partenza e un altro di arrivo, che sia distante dal primo. La distanza, nei viaggi, è una caratteristica che si comincia a percepire già da bambini: il dilatarsi del tempo tra un punto e l'altro che pare durare all'infinito per percorrere un certo numero di chilometri, per arrivare a destinazione.

Si tratta di un viaggio fisico all'interno di un contesto spazio-temporale che si contrappone a quello metaforico, descritto spesso come viaggio interiore, di ricerca all'interno di se stessi.

La nozione di viaggio nel suo senso più profondo indica un contesto in cui si possono sviluppare entrambe le sfumature. Un viaggio, a meno che non sia il pacchetto vacanze organizzato nel villaggio turistico, non può non lasciare delle tracce in chi lo compie.

Cesare Pavese scriveva che: "viaggiare è una brutalità. Obbliga ad avere fiducia negli stranieri e a perdere di vista il comfort familiare della casa e degli amici. Ci si sente costantemente fuori equilibrio. Nulla è vostro, tranne le cose essenziali - l'aria, il sonno, i sogni, il mare, il cielo - tutte le cose tendono verso l'eterno o ciò che possiamo immaginare di esso".

La mancanza di equilibrio è ciò che bisogna sottolineare: il punto del viaggio consiste giustamente nell'uscire dal proprio equilibrio, che sia volontariamente oppure controvoglia; ritrovarsi in situazioni in cui normalmente non ci si trova, e doverle affrontare senza le quinte che siamo abituati ad avere alle spalle. È una scena tutta nuova, sulla quale non possiamo recitare la nostra parte di sempre. Pavese lo definiva una brutalità: ma una brutalità - sempre a detta sua - che ci fa tendere verso l'eterno.

Perché l'eterno? Il tempo del viaggio è particolare: nessuno lo percepisce allo stesso modo, e mai come il tempo di casa. Non è palesemente quello della vita di tutti i giorni che si può definire come il tempo della routine, dell'abitudine.

Al contrario, invece, il tempo del viaggio è quello dell'imprevisto, oppure del tempo che si perde su se stesso. Pare non scorrere: tant'è che la sensazione, una volta tornati, è che tutto sia rimasto esattamente dove l'avevamo lasciato. Alla fine del viaggio, il tempo stesso si cristallizza e rimane fermo, come se fossimo scesi dalla giostra e questa si fosse fermata improvvisamente.

Il viaggio e le differenze

Dei numerosi cliché sui viaggi, quello che ci viene venduto più spesso e meglio degli altri è quello dell'incontro con il diverso, con cose che non conosciamo, con luoghi mai visti e persone nuove. Ed è questo che dovrebbe aprirci gli occhi e la mente e conferire al viaggio quel carattere di scoperta sia esteriore che interiore che dovrebbe farci tornare a casa come illuminati.

Viaggiare pare uno strumento indispensabile per comprendere il mondo seriamente e in ogni sua sfaccettatura, senza rimanere superficiali. Eppure abbiamo esempi di personaggi geniali che non hanno mostrato una grande attitudine al viaggio. È sufficiente pensare a Immanuel Kant come esempio. Il grande filosofo tedesco non ha mai lasciato Konigsberg in vita sua. Eppure, tralasciando l'ampiezza della sua opera filosofica, le sue opere di geografia e antropologia sono assolutamente notevoli, al pari di quelle di rinomati studiosi dei due campi. Nonostante rimangano, in alcuni punti, discutibili sulla loro precisione e senza alcuna esperienza empirica alla base.

Uno dei problemi dell'antropologia è stato che per lungo tempo sia rimasta una scienza da "tavolino": l'antropologo che redigeva le opere, attendeva che i dati gli fossero forniti da studiosi che si recavano sul campo, ma non si riteneva fondamentale che l'autore di uno scritto di antropologia si fosse mosso dal suo studio.

Lo schema principale consisteva nel rimarcare le differenze tra la società occidentale ed evoluta, e le altre più "arretrate" che si incontravano durante i viaggi di esplorazione negli altri continenti. Il viaggio era sì un'occasione di incontro con il diverso, ma non costituiva un momento di guadagno "spirituale", quanto un egoistico paragone tra civiltà che vedeva quella occidentale sempre un gradino più in alto.

La base del viaggio, quindi, potrebbe non stare nella ricerca della differenza, del diverso, e nella sua comprensione. Non è mai facile capire realmente e profondamente ciò che è differente da noi, altrimenti non sarebbe diverso. Piuttosto, l'importanza risiede nel rendersi conto che queste differenze esistono sì, ma che più lungo è il viaggio, più queste scemano fino a scomparire.

"Viaggiando ci s'accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma, ordine, distanze, un pulviscolo informe invade i continenti''. Italo Calvino descrive così il viaggio nelle sue "Città Invisibili" del 1972. Le differenze, appunto, si possono perdere. Il viaggio non è il momento per rimarcarle e tracciare i confini che le rinchiudono, ma un mescolarle e vedere che, dopotutto, non sono così profonde come si potrebbe pensare in un primo momento.

Il punto fermo

Nel libro, Marco Polo racconta al Gran Khan delle città che ha visitato viaggiando per il suo sconfinato impero. Fino a quando il Khan lo rimprovera di non parlare mai di una città in particolare, Venezia: "Ne resta una di cui non parli mai".

Marco Polo chinò il capo. "Venezia", disse il Khan. Marco sorrise: "E di che altro credevi che ti par­lassi?".

L'imperatore non batté ciglio. "Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome". E Polo: "Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. (…) Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia".

Marco Polo, veneziano vissuto tra il XIII e il XIV secolo, intraprese un lungo viaggio fra il 1271 e il 1295, percorrendo la Via della Seta fino alla Cina. Divenne consigliere e ambasciatore del Kublai Khan, viaggiando poi fino in India e in Birmania. Il Marco di Italo Calvino, durante questo lungo viaggio tiene un punto fermo che è Venezia, la città che gli permette di vedere tutte le altre.

Per viaggiare, quindi, è necessario tenere un punto fermo dentro di sé? Non è necessario sia un luogo, ma qualcosa che ci permetta di non venire spazzati via è importante che ci sia. Le differenze che incontriamo possono toccarci più di quanto vorremmo, prima di riuscire a perderle. Ed essere spazzati via significa voler tornare: un perdere in qualche modo il viaggio stesso.

Lo scrittore polacco I.B.Singer affermava: "Detesto viaggiare; a che mi serve, se quello che si può vedere uno ce l'ha già dentro?". Possiamo dargli ragione, gran parte di quello che scopriamo in viaggio probabilmente era già dentro di noi, ma è necessario partire per ritrovarlo. Il gioco del viaggio non è trovare le differenze negli altri, ma confondere queste differenze esteriori - come scriveva Calvino - e ritrovare quelle interiori di Singer.