Domenica 10 dicembre 2022 si è conclusa la ventunesima edizione del Festival del Cinema di Porretta Terme, kermesse dedicata al Cinema libero e indipendente. Nel corso della serata stessa sono stati premiate tre pellicole del Concorso Fuori dal Giro, tra cui Rue Garibaldi di Federico Francioni, che si è aggiudicato il riconoscimento della Giuria SNCCI (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani).

Blasting News ha colto l’occasione di intervistare il regista 34enne Federico per raccontare le sue sensazioni provate poco dopo la premiazione, un approfondimento in più sul film vincitore al festival e qualche breve anticipazione sui suoi progetti futuri.

L’intervista a Federico Francioni

Hai vinto il premio della Giuria SNCCI per Rue Garibaldi al Festival del Cinema di Porretta 2022. Te l’aspettavi? Quali sono state le tue prime sensazioni?

"No, non me l’aspettavo proprio. Questo film ha vinto diversi premi ed è stato abbastanza riconosciuto. In questo caso, però, non mi aspettavo minimamente questo premio soprattutto per il fatto che il film era l’unico documentario in concorso, e quindi, forse l’unico più “fragile” dal punto di vista produttivo rispetto agli altri che sono di lavori di finzione e con una grande produzione alle spalle. Insomma, questo mi ha un po’ sorpreso e in particolare la giuria critica è andata al di là dei problemi produttivi e ha apprezzato il film per la sua vitalità e per la sua autenticità, credo.

Questo mi ha fatto molto piacere".

Rue Garibaldi è un documentario che l’immigrazione e il precariato che sono sempre stati temi molto attuali attuale, pensi che sia stato anche questo a premiarti?

"Credo di sì. Penso che questi temi abbiano incuriosito, ma credo che sia stato anche un discorso di linguaggio e di possibilità del cinema, perché di storie che raccontano l’immigrazione e il precariato ce ne sono molte e non necessariamente sono interessanti o forti.

In questo caso, penso che la cosa più interessante del film è che è stata un’esperienza e di aver vissuto con i protagonisti Ines e Rafik ed come se avessi scoperto questa realtà, averla attraversata e di averla vissuta ancor prima di raccontarla. Credo che questo è quello che manchi un po’ nel cinema e a volte vengono raccontate storie che forse non si conoscono neanche fino in fondo.

Quindi, penso che ne valga la pena conoscere meglio l’umanità di questi ragazzi e di questi personaggi e scoprire che poi al di là dell’immigrazione e del precariato c’è un valore umano molto più ricco, interessante e che racconta il nostro presente. Quindi, ho provato a fare un film che raccontasse il qui ed ora e anche vivere qui ed ora. Anche questo penso che abbia influito sulla decisione del premio".

È un film con molto pathos, che spesso manca nei documentari, sei d’accordo?

"Beh, sì Ines e Rafik sono due personaggi molto forti ed incredibili. Questo è anche i motivo per cui ho deciso fare il film su di loro perché sono fratello e sorella e sono personaggi molto fondamentali. Infatti, la pellicola si regge tutta su di loro e non ci sono altri personaggi e non c’è nient’altro al di fuori di loro.

Sono due ragazzi di diciassette anni riescono comunque a reggere un film come due attori".

Cosa ne pensano del premio Ines e Rafik, che sono stati i due protagonisti del documentario?

"Loro sicuramente sono rimasti stupiti del film, anche perché è molto intimo che racconta tanti pezzi della loro vita privata. Penso che nessuno potesse avere qualcuno dentro casa che ti riprende buttato sul divano a non fare niente e quindi c’è anche un po’ di pudore da parte loro. Poi però l’hanno accettato soprattutto quando hanno visto che il film viveva in sala davanti ad un pubblico e c’erano delle persone che s’immedesimavano nella loro storia. Insomma, questo ci ha fatto davvero molto piacere. Adesso, Ines e Raffica sono felici e il film ha fatto un po’ il suo giro ed è stato visto.

Sono molto felice del fatto nessuno lo vedrà più perché è un anno che lo sto portando in giro e le proiezioni sono esaurite. In realtà, il film è disponibile sulla piattaforma online di ZaLab e se qualcuno vuole recuperarlo è appena uscito da qualche giorno. Comunque, i due protagonisti sono felici che si parlerà sempre di meno della loro vita, ma sono contenti di aver fatto quest’esperienza ed è stato bello per tutti quanti. E’ rimasto un rapporto d’amicizia tra di noi e infatti ancora ci sentiamo al di là del film e di farli diventare dei personaggi. Poi quando ho fatto delle proiezioni in giro per l’Italia ho ricevuto messaggi da tanti ragazzi e soprattutto giovani che mi dicevano che si sono molto immedesimati e li sentivano vicini.

E il fatto di essere Ines e Rafik, quindi con nomi arabi e fanno parte della seconda generazione e figli di migranti tunisini, per me era completamente secondario. Davo per scontato che fossero due ragazzi cresciuti i Sicilia, del mio paese e quindi sono parte integrante della mia cultura e trovo anche molto bello il fatto che la loro storia racconti quella di tanti italiani all’estero".

Quindi, oltre alla Francia, c’è anche un po’ di Italia, soprattutto la Sicilia nel film?

"Molto anzi moltissimo. Ogni tanto Ines e Rafik parlucchiano anche dialetto siciliano, parole arabe ed è tutto un po’ mescolato".

In Rue Garibaldi emerge un vero e proprio chiaro- scuro riguardo i colori delle immagini. Il precariato e la vita difficile rappresenta lo scuro e invece la vitalità dei due protagonisti è simbolo del chiaro-scuro.

Quanto ti ha influenzato l’arte?

"In realtà, quando giro cerco di dimenticare tutto e tutti gli impulsi. Mi prendo del tempo vedo molti film, studio, vado a delle mostre, vedo molte fotografie, quindi c’è un lavoro di preparazione. Però quando si gira è molto più istintivo, immediato e passa ad un livello più inconscio. In realtà, prima di girare il film avevo visto un dipinto di Caspar Friedrich ed è molto interessante perché c’è una donna di spalle che guarda fuori da una finestra, ma noi non vediamo quello che c’è fuori da questa finestra e vediamo solo le spalle e la stanza. Mi piace molto perché è un dipinto proprio sul “guardare” e riguardare perché non vediamo quello che vede la donna ma siamo dentro la stanza con lei.

Questo mi ha un po’ influenzato, ma non tanto sulle immagini da fare ma proprio concettualmente e per l’idea del film. Quindi, la possibilità di stare dentro casa e di guardare il mondo attraverso delle finestre e soglie insieme ai miei due personaggi. Rue Garibaldi è un film di colore scuro perché la realtà è scura, e qui siamo nella banlieue parigina d’inverno, dove spesso nevica e non c’è luce e la casa era molto scura. Dunque, questo sono riuscito a trasferirlo anche per immagini, ma il film è scuro ma non è desolante perché c’è la grande umanità di due protagonisti che fanno luce da soli ed è questa un po’ la sfida".

Che cosa differenzia un regista con un film classico e con attori e un documentarista che racconta quasi reportage?

Cosa consiglieresti di fare a un ragazzo che voglia intraprendere questo mestiere?

"Innanzitutto, dico a chi vorrebbe fare questo mestiere che mi dispiace per lui. Deve smettere di pensarci e fare altro, perché non è neanche un mestiere. Io faccio altro per vivere, insomma. Comunque, tra il cinema di finzione e il documentario non c’è differenza per me e poi io da spettatore voglio vedere film, perché è qualcosa che racconta una storia, che emoziona e che mette le mani nella complessità. Quindi, si può fare attraverso la finzione e sia tramite il documentario non mi interessa. E’ vero che nel documentario c’è questa accezione del reportage, del giornalismo, ma mi dichiaro innocente da questo perché è un problema di chi comunica.

Il cinema documentario non ha niente a che vedere con il giornalismo, purtroppo a volte ci sono dei film molto tematici e molto attesi e anche un po’ ideologici. Il cinema è un’altra cosa, ed è linguaggio, esperienza e narrazione. C’è sicuramente una differenza nella forma e nell’approccio. E’ chiaro che un film di finzione ha bisogno di un’equipe, di una struttura che si muove anche in modo più lento, ma anche più solito e compatto. Inoltre una pellicola necessità di una scrittura molto precisa e lì dove il cinema documentario ha bisogno di personaggi, e soprattutto di sguardo. Quindi, dove si guarda in qualche modo si trova un’interpretazione, una chiave per raccontarci la realtà. Infine, il cinema ha anche a che fare con l’esperienza perché se si comincia a fare un film su un tema non si sa mai come andrà a finire.

Quindi, ogni giorno c’è da scoprire, avanzare e bisogna lavorare molto con i propri personaggi o con un protagonista con cui ha scelto la storia da raccontare, perché non sono attori professionisti. Comunque, è molto stimolante, interessante e mi mantiene molto vivo e attivo laddove il cinema di finzione, forse, è più “comodo” da un certo punto di vista nonostante sia molto complicato e faticoso. Il cinema documentario è per sua natura improvvisazione perché non c’è un vero copione scritto".

Quindi, hai scelto una strada un po’ più complessa...

"Ho scelto una strada più complessa sicuramente, ma è anche più libera e stimolante. Ad esempio, con il cinema documentario ho raccontato storia di Rafik e Ines cosa che non riuscivo a fare nei film, ma penso che sia importante narrare loro vita.

Due ragazzi di 19 e 20 anni che vanno a vivere all’estero per cercare lavoro, così maturi e poi in una narrazione in cui per anni ci viene detto che i giovani sono tutti fannulloni, ho sdoganato parecchi luoghi comuni. Per me, Ines e Rafik sono due eroi e ho bisogno di loro per capire un po’ come va il mondo e cosa succede intorno a me".

Quali sono i tuoi progetti futuri?

"Al momento sto lavorando a un progetto, che è sempre un documentario in Marocco con un amico francese. Siamo in due e stiamo raccontando una storia lì che non è facile ed è più o meno autoprodotto, quindi dobbiamo andare lì a farlo, passare del tempo. Altri progetti direi un film di finzione, ma non so sono tempi non ancora maturi. Magari, smetterò di direttamente di fare cinema e farò altro. Il cinema non è obbligatorio, lo faccio per raccontare storie al pubblico".