Episodi come la distruzione avvenuta per mano talebana nel marzo 2001 dei Buddha nella valle di Bamiyan in Afghanistan; l’attacco alle Twin Towers dello stesso anno; l’assalto avvenuto il 7 gennaio 2015 alla sede parigina del settimanale satirico francese Charlie Hebdo, sono solo alcuni degli avvenimenti che hanno segnato la guerra dichiarata alle immagini dall'Isis. Non è inverosimile ipotizzare che quella messa in atto dai terroristi islamici è una nuova fase di quella che in tedesco va sotto il nome di Bildersturm (alla lettera, «tempesta sulle immagini»), insomma, una nuova ondata iconoclasta.

Dobbiamo chiederci: l’obiettivo dei terroristi è davvero quello di distruggere le immagini?

Nel 2004 un italiano, Fabrizio Quattrocchi, fu rapito e ucciso in Iraq. La sua fu una delle prime esecuzioni a cui i terroristi ci hanno abituato. La classica pratica della trasformazione dei corpi dei nemici in trofei viene convertita – attraverso queste dinamiche sanguinarie – in qualcosa di diverso: non vengono mostrati cadaveri come immagini di morte, ma si uccidono delle persone per poterle utilizzare come immagini.

Nel 2014, vennero brutalmente sgozzati tre ostaggi: James Foley, Steven Sotloff e David Cawthorne Haines. Nel video del primo assassinio, si preannuncia il secondo e così via. Il macabro susseguirsi di questi appuntamenti tende a far scivolare il pubblico all’interno di una spirale di orrore.

Davanti a queste immagini si prende atto, ci si indigna e si inorridisce. Oltre alla condanna, il sentimento più diffuso è l’indignazione. C’è da chiedersi: la censura è davvero una risoluzione del problema? Secondo alcuni, mettere in mostra queste atrocità è un modo per riscattarne l’orrore. L’invisibilità le condannerebbe al silenzio.

Il merito di Perseo non fu, infatti, quello di tagliare la testa di Medusa ma quello di superare le proprie paure e guardare il riflesso nello scudo. L’orrore è sempre fonte di impotenza, le immagini riflesse offrono la possibilità, a colui che sa guardarle, di conoscere. Dare visibilità alle atroci immagini delle decapitazioni, implica un ampliamento dell’orizzonte del nostro sguardo, è un passo necessario per iniziare a far luce sul terrore contemporaneo.

Il terrorismo è davvero iconoclasta? Era questa la domanda di partenza. Possiamo provare ad avanzare l’ipotesi che esso sia – essenzialmente – iconofilo? L'obiettivo è, infatti, quello di produrre immagini forti. Esse diventano, così, delle vere e proprie icone del terrore. Dopo decenni di critica della mimesis, della rappresentazione, come possiamo dire che queste brutali immagini di tortura non sono reali? Siamo nuovamente pronti – dopo secoli di critica delle immagini – ad accettarle come indiscutibilmente vere. Il fondamentalista non pratica l’iconoclastia, al contrario, il suo intento è quello di rafforzare la fede nell’immagine, il suo obiettivo è quello di rinforzare la seduzione iconofila.