“Quando compro il mondo diventa migliore e subito dopo non lo è più e io ho bisogno di rifarlo”. Era la Rebecca Bloomwood della commedia leggera I love shopping a dirlo, ma è anche ciò che emerge dal rapporto di Greenpeace, "After the Binge, the Hangover", relativo all’indagine commissionata agli istituti indipendenti di ricerca Nuggets, TNS e SWG in occasione del Copenhagen Fashion Summit, il più grande evento mondiale sulla sostenibilità della moda che si terrà domani 11 maggio 2017 alla Copenhagen Concert Hall.

L’indagine, che si è svolta tra dicembre 2016 e marzo 2017, ha preso in esame circa 1000 persone tra i 20 e i 45 anni.

Oggetto di interesse le abitudini di consumo dei residenti in Europa (Italia e Germania) e nell’Asia dell’est (Cina, Hong Kong e Taiwan).

Alcuni dati

La fast fashion, di cui colossi come H&M, Zara e Top Shop sono promotori, ha determinato un raddoppiamento della produzione di capi di abbigliamento dal 2002 al 2014. Secondo una stima nel 2025 le vendite di vestiti raggiungeranno 2,1 trilioni di dollari, mentre si attestavano al trilione nel 2002 e all’1,8 nel 2015.

Sul piano ambientale le conseguenze sono notevoli per via del crescente dispendio di acqua, legno, cotone e combustibili fossili necessari alla produzione, alla tintura e al trasporto dei prodotti d’abbigliamento nel mondo. Inoltre più del 60% degli indumenti in commercio sono realizzati in fibre sintetiche, difficili da smaltire una volta dismessi.

Era il 2015 quando Greenpeace lanciava Detox Outdoor per eliminare l’uso dei PFC, potenzialmente cancerogeni, dai capi d’abbigliamento tecnici sulla scia della più ampia campagna Detox my fashion.

Sul piano sociologico

L’indagine rappresentativa ha sottolineato come le persone comprino più vestiti di quanto abbiano davvero bisogno.

In testa c'è la Cina con i suoi 60% di rispondenti, a seguire Germania e Italia dove gli interessati sono più della metà. Il 41% dei cinesi, un quarto dei tedeschi e un terzo degli italiani sono poi compratori compulsivi: acquistano settimanalmente, possono passare fino a tre ore al giorno comprando online e lo fanno anche se si trovano a scuola o a lavoro.

In caso contrario si sentono vuoti o annoiati, ma spesso provano senso di colpa che li spinge a nascondere agli altri i propri acquisti per timore di essere giudicati negativamente. Le sensazioni legate al consumo sono invece un aumento della fiducia in sé stessi, euforia, soddisfazione legata al bisogno di svagarsi o allentare la pressione. Le più propense a queste abitudini di consumo sarebbero le giovani donne tra i 25 e i 34 anni.

Un ruolo in questo trend va riconosciuto, secondo il rapporto, anche all’impatto di social network come Instagram e Snapchat e alla sempre maggiore integrazione con l’e-commerce. Eppure il benessere legato all’acquisto non è duraturo, anzi in molti casi scomparirebbe in meno di un giorno, lasciando il passo ad una sorta di hangover.

Così mentre da un lato il fenomeno della moda veloce sembra ormai irreversibile, ci si chiede se siano possibili nuove modalità di gestione del processo produttivo o se non sia più etico fare un passo indietro. Ines de la Fressange, icona dello stile parigino, in un'intervista a Grazia sostiene che: “invece di comprare dieci paia di scarpe di qualità mediocre, è più saggio investire in un solo accessorio di qualità, che trasforma immediatamente il look. C’è sempre un’occasione, dal compleanno alla festa della mamma, per farselo regalare”.

La domanda è siamo ancora capaci di aspettare?