Che il mondo previdenziale stia per entrare in una fase nuova è un dato di fatto. Lunedì, nel tanto atteso summit tra sindacati e Governo, probabilmente usciranno i decreti attuativi di APE e Quota 41 e si terminerà il lavoro su Opzione Donna. Tutti interventi che il Governo ha messo in atto nella manovra finanziaria e pubblicizzati come la risposta alla tanto necessaria flessibilità in uscita del sistema pensionistico. Ma siamo sicuri che le novità siano davvero a favore dei lavoratori che desiderano essere liberi di scegliere quando lasciare il lavoro?

Assistenzialismo mascherato da pensione

Esistono gruppi di lavoratori precoci, come quello di Facebook, “Lavoratori precoci uniti a tutela dei propri diritti” che non passa giorno che non rivendichino quota 41 per tutti, cioè la misura che secondo loro sistemerebbe la categoria vessata dalla Legge Fornero. Un altro Gruppo di lavoratori nato sui social, “41 per tutti, lavoratori uniti”, ha fatto sapere che parteciperà in massa alla manifestazione a Trofarello (TO), insieme ai lavoratori che perderanno il posto per colpa della chiusura del Centro Commerciale Carrefour. Una quota 41 però è comparsa nella Legge di Bilancio, ma evidentemente non piace a molti. Una misura che si rivolge ai precoci, ma solo a determinate categorie, per così dire svantaggiate.

Un misto tra una misura previdenziale ed assistenziale, una anomalia vera e propria contestata anche dai sindacati presenti al tavolo del Governo. Per loro infatti, la previdenza va distinta dall’assistenza, ma quota 41 così com’è, sembra un sussidio per disagiati sociali e lavorativi. Infatti, la misura prevede sempre 41 anni di contributi di cui uno versato prima dei 19 anni di età, ma non solo.

Bisogna essere disoccupati da almeno 3 mesi senza ammortizzatori sociali, invalidi o con invalidi a carico, sempre che la percentuale di disabilità sia almeno del 74%. In alternativa, bisogna prestare servizio nelle 11 categorie di lavori gravosi previsti in manovra, ma con 6 anni di continuità lavorativa, cioè negli ultimi 72 mesi, si deve risultare sotto ingaggio.

Lo stesso vale per l’APE sociale, che è appannaggio degli stessi disagiati di quota 41, che hanno 63 anni e 30 (disoccupati e invalidi) o 36 anni (i gravosi) di contributi.

Critiche da più parti

Anche l’APE volontaria è contestata perché altamente svantaggiosa per i lavoratori. Si tratta di una specie di finanziamento pensionistico, un prestito bancario incassato mese per mese come una pensione (ma senza tredicesima) a partire dai 63 anni con 20 di contributi. Ma i prestiti vanno restituiti e così, una volta raggiunti gli anni per la pensione di vecchiaia, cioè 66 anni e 7 mesi, la pensione reale, quella spettante, sarà decurtata di una rata mensile, cioè della quota di debito che si restituirà.

In pratica, si chiede al lavoratore, di indebitarsi per uscire dal lavoro prima ed il debito costerà anche il 30% della pensione futura. Lo stesso taglio, più o meno, anche se senza debito, accade per le lavoratrici che sceglieranno opzione donna. Uscire dal lavoro a 57 anni e 7 mesi di età, compiuti entro il 31 luglio 2017, con 35 anni di contributi centrati al 31 dicembre 2015, ma accettando il calcolo contributivo della pensione. Chiara Saraceno, sociologa della famiglia, ha contestato la misura come riporta il “Fatto Quotidiano” dell’8 marzo. Secondo la sociologa, la penalizzazione prevista rende la misura fruibile solo da persone senza alternative, un po’ quello che accadrà con l’APE. Infatti difficilmente i lavoratori senza particolari problematiche, si indebiteranno sull’altare dell’uscita dal lavoro con 3 anni o poco più di anticipo.

Prevedibile il flop della misura, che sarà fruita solo dai beneficiari della versione assistenziale., cioè disperati o quasi. Per Opzione Donna è lo stesso e la sociologa spiega che il pesante taglio di assegno lo rende appetibile solo da chi non trova nelle norme, un’altra strada per assistere un parente disabile restando al lavoro.