La Corte di Cassazione ha ribadito che nel riconoscimento del diritto alla pensione agli invalidi civili totali, si deve tenere conto del reddito familiare e non solo del reddito personale.

Lo aveva già affermato nel 2011 e ribadito nel 2012, ora lo ha confermato nuovamente con la sentenza 7320 del 22 marzo 2013, nel bel mezzo della melina tra Ministero del lavoro e INPS, che prima si era uniformata all'indirizzo della Cassazione e all'orientamento dei giudici dei Tribunale e che poi aveva cambiato parere, in attesa dell'esito di un approfondimento tecnico di un gruppo di lavoro organizzato dal Ministero nel corso della campagna elettorale.

La nuova sentenza dovrebbe creare un qualche imbarazzo agli artefici di questo balletto, perché la legge si può cambiare in parlamento ma non forzare e piegare secondo le esigenze del momento.

Il gruppo di studio, dovrebbe svegliarsi dal torpore e prendere atto dell'indirizzo giurisprudenziale ormai unanime. L'INPS dovrebbe smetterla di concedere in via amministrativa ciò che nega in sede giudiziaria.

 Queste logiche e ragionevoli previsioni mettono in subbuglio il "mercato" dell'invalidità civile dove vari soggetti, nel nome dei deboli, innalzano un polverone non privo di demagogia e di ipocrisia.

Uno dei tanti avvocati che operano nel campo dell'invalidità civile ha tuonato che l'interpretazione della Corte provocherà "l'estinzione fisica della coppia" e rappresenta "la più grave controriforma in materia assistenziale con conseguenze devastanti soprattutto per la donna", perché l'assegno e la pensione di invalidità sono posti a tutela dei più deboli che perdono in tutto o in parte la capacità di lavoro.

C'è stato chi ha espresso "sconcerto e contrarietà per la sentenza della Corte di Cassazione" perché "un tema così delicato qual è quello dell'invalidità civile, che coinvolge centinaia di migliaia di persone in condizioni di estrema fragilità e bisogno, non è un tema giuridico, ma un tema sociale, che va risolto dalla politica, con il coinvolgimento delle parti sociali".

Per altri la sentenza "riduce i diritti di cittadinanza" e colpire così i più deboli "non può appartenere a uno Stato che pretenda di essere equo e governato dal semplice buon senso".

Secondo qualche sindacalista, "l'invalidità in quanto tale è un fattore individuale e non certo familiare", pertanto "il reddito da conteggiare deve essere quello individuale".

Prendendo come riferimento anche il reddito del coniuge, si colpirebbe "la parte più debole e indifesa del Paese, introducendo per paradosso gravi discriminazione tra gli stessi invalidi. Basta pensare che due persone con una stessa invalidità possono o meno percepire l'assegno se siano sposati o meno. Un fatto inconcepibile".

Partendo da queste premesse, si assicura che il sindacato "si farà garante e lotterà con tutte le sue forze contro questa sentenza".

Ad avviso di questi difensori dei deboli, il diritto alla pensione di invalidità deve continuare a essere legato al reddito individuale, per evitare che "moltissimi invalidi civili al 100 per cento perdano la possibilità di ricevere questa prestazione" e chiedono al Governo (quale?), con un pizzico di demagogia, di impegnarsi "a restituire giustizia, dignità e diritti a nostri concittadini che vivono quotidianamente sofferenze e disagi, aggravati dalla difficile condizione del nostro Paese e dalla riduzione del welfare".

A mio avviso, si tratta di argomentazioni prive di pregio giuridico da parte di chi, in dispregio delle norme e di chi è chiamato ad applicarle, vorrebbe ancora dare tutto a tutti inconsapevole della crisi che stiamo attraversando.

I cori di protesta parlano di dissoluzione della famiglia, di problemi individuali, dimentichi che tutte le prestazioni dell'INPS sono legate anche al reddito del coniuge (trattamento minimo, maggiorazioni sociali, pensione e assegno sociale), tanto che la norma sugli invalidi civili rinvia proprio all'art. 26 della legge 153/69 che disciplina i criteri di attribuzione della pensione sociale.

La famiglia e il suo reddito non possono essere prese in considerazione secondo le convenienze.

L'istituzione "famiglia" racchiude tutele (pensione superstiti, ANF, ISEE, detrazioni d'imposta, etc.) e oneri.

I difensori dei deboli di fatto vogliono continuare a tutelare il proprio ruolo e quanti, pur vivendo nel benessere, percepiscono la pensione d'invalidità civile a carico di tutti i cittadini e a discapito dei veri poveri e veri invalidi. Non si può continuare a elargire assistenza anche al coniuge di chi ha redditi elevati, perché le tutele devono gravare, come dice la Cassazione, prima sulla famiglia e poi sullo Stato comunità.

Condivisibile, invece, è l'esigenza di una rivisitazione complessiva di tutta la materia dell'invalidità civile e dell'assistenza, compresa la regolamentazione del "mercato" di quanti vi operano, al fine di evitare abusi, monopoli e lo sfruttamento dei deboli.