Ormai è diventata una triste routine. E alla routine, si sa, è pericolosamente facile abituarsi. Ogni nuovo caso di femminicidio, che si aggiunge all’interminabile lista delle donne ammazzate dai loro compagni, dai mariti, da uomini violenti ed ossessivi, all’interno o al di fuori delle mura domestiche, sembra destinato a suscitare sempre meno scalpore. Mentre le pagine di cronaca continuano a tingersi, più che di nero, del rosso sangue dell’ennesima vittima, l’indignazione cede stancamente il passo al silenzio-assenso, alla rassegnazione di chi accetta passivamente che il reiterarsi di una vicenda la renda inesorabilmente consuetudine.
Questa volta siamo a Valenza, in provincia di Alessandria. Carmelo Reitano, 73 anni, pensionato, chiama il 112, confessando l’omicidio della moglie, Rita Giuseppa Lercara, di anni 67. All’arrivo delle forze dell’ordine nell’abitazione dei coniugi, al civico 21 di via Trieste, l’uomo è ancora accanto al corpo della vittima, colpita al collo con un numero non meglio precisato di coltellate. Scortato immediatamente in caserma, Reitano è stato sottoposto questa mattina a un lungo interrogatorio, condotto dai militari con l’intervento del Nucleo Operativo Radiomobile e Investigativo di Alessandria per comprendere meglio quale possa essere stato il movente di un simile gesto.
Femminicidio: la barbarie che diventa consuetudine.
Mentre la notizia, diffusa poche ore fa dall’Ansa, comincia a diffondersi rapidamente sul web, viene concesso sempre meno spazio, in termini di risalto anche solo grafico, di layout o di impaginazione dei siti internet, a quello che sostanzialmente si configura a tutti gli effetti come l’ennesimo caso di femminicidio. Se il ricorso ai numeri sortisce l’effetto contrario di ridimensionare quella che è stata definita una vera e propria “strage delle donne”, riportandola come semplice statistica da tabella a piè di pagina, è prendere atto con consapevolezza e spirito critico che ad oggi sono più di 60 le donne uccise in Italia dall’inizio del 2016.
Un bollettino di guerra. Non fosse altro che abituarsi alla barbarie, permettendo a notizie di questo tipo di scivolare nei trafiletti a margine a vantaggio del gossip e delle chiacchiere da salotto, costituisce una sconfitta a monte per quanti si impegnano ogni giorno nella dura lotta contro il femminicidio e la violenza di genere.
Il caso dei titoli contestati
Oltre al merito incontestabile della velocità con cui le notizie vengono diffuse, ai social e alle piattaforme online in generale va riconosciuta senz’altro la libertà di espressione e di opinione estesa a un bacino d’utenza sempre più ampio. Da semplici lettori, ci si sente chiamati in causa e a rendersi partecipi di un dibattito che coinvolge non più soltanto la notizia nuda e cruda, ma l’intera etica che sottende la sua diffusione.
Questa volta, al vaglio del tribunale mediatico dei social, viene passata la conformità semantica del termine “femminicidio”, utilizzato nei titoli in relazione alla vicenda di Valenza. In particolare, viene contestato l’uso smodato del termine, secondo alcuni “inappropriato” per un caso di questo tipo. Come se Rita Giuseppa Lercara non fosse l’ennesima vittima della brutalità di un uomo, di un compagno, di un marito che ha preferito ricorrere a un coltello, anziché a un dialogo o a una sanissima, spesso necessaria e comunque legittima separazione.
Individuare l’eziologia di un male, equivale innanzitutto a riconoscere coscientemente quel male in quanto tale. Finchè al femminicidio non sarà riconosciuto il suo pieno significato e la brutale portata del suo significante di sottomissione e subalternità del ruolo femminile, atto a contraddistinguerlo nettamente dal reato di omicidio generico, siamo ancora lontani sia dall’antidoto che da un possibile vaccino che possa immunizzare una società ancora profondamente ammalata di maschilismo e di patriarcalismo. Perché non vogliamo pensare che sul caso di Valenza possa far leva un fattore meramente anagrafico.