Ammettiamolo. La cosa ci è scappata di mano. Che cosa? Il selfie - o autoritratto digitale -, quelle fotine fatte da noi, su di noi e che dovrebbero parlare, appunto, di noi. E invece no. Con il noi quella colata di pixel ha poco a che fare; semmai con le nostre identità digitali, sì: immaginifiche, discontinue, reversibili. Le si renda cangianti o se ne ricavi un sontuoso bianco e nero, le nostre fotine stanno sempre lì a raccontare di quanto ci vada stretto il quotidiano. Perciò ogni selfie è un click sulla via di fuga, dal proprio mondo, dall’io-sociale.

Per carità, non c’è nessun male a giocare con l’elemento cardine dell’identità psico-sociale, la propria immagine. Tutti vorremmo apparire più interessanti e desiderabili agli occhi degli altri. Come nel vivere in società; quando aggiustiamo la cravatta (per gli uomini) o slacciamo l’ultimo bottone della camicetta (per le signore), quando impostiamo la voce, sistemiamo i capelli, ci mostriamo brillanti – insomma ci diamo il giusto ‘tono’ per la circostanza – , stiamo lavorando sulla rappresentazione del sé, una sorta di selfie evolutivo che affonda negli albori della civiltà. Tranne gli eremiti, i sociopatici e i depressi, si è sempre fatto così. Ma l’avvento del digitale ha polverizzato ogni vincolo e la rappresentazione del sé – e dunque l’identità – è implosa o, nella variante teorica ottimista, si è fatta plurale.

Per dirla tutta: una persona sgraziata (bruttina, via!), mai avrebbe potuto scommettere sul proprio fascino (le eccezioni ci sono), chi era timido non si sarebbe circondato di amici, chi lavorava in un municipio non avrebbe potuto dichiararsi - per esempio - scrittore o cantante, senza incappare nell'ilarità dei colleghi. Con il digitale si può fare.

E la fotina? E’ lì a mostrarlo. Così tutti i giorni, dai social network, assistiamo a una calata virtuale di sedicenti giornalisti, scrittori, attrici, musicisti, cantanti, modelle e poeti, come mai era accaduto nella storia dell’interazione umana, al netto di millantatori e lestofanti. E il selfie? Chi lavora con le parole se lo fa in bianco e nero (tranne gli esperti di gossip che vanno ghiotti per il colore), chi suona, con gli attrezzi del mestiere – gli strumenti musicali – mentre chi ama apparire (attori/attrici, modelli/modelle, ecc.) concede volentieri uno scampolo di torace (per lui) e una piega del seno (per lei).

Poi ci sono i selfie rituali, non necessariamente legati all'identità digitale. Tutti, potenzialmente, ne siamo portatori. Sono quelli che affiorano in occasione di un evento ad alto impatto mediatico. Così a ogni catastrofe, attentato terroristico o accidenti qualsiasi, i social sono invasi di fotine che ritraggono i volti – atterriti, esterrefatti, cogitabondi – di anonimi 'selfati', meglio se scattate sui luoghi della sciagura e sovrastate dalle più ficcanti citazioni letterarie/filosofiche/poetiche dell’autore del momento (Alda Merini e pier paolo pasolini, su tutti). Nei pochi giorni in cui non si consumi una sciagura in terra, è lo stato mentale a farla da padrone. Un amore finito? Un’amicizia tradita?

La morte di una persona cara? Ed ecco farsi largo nella home page un brandello di principio letteral-filosofico (Alda Merini e Pier Paolo Pasolini, sempre loro) sopra la fotina del 'selfato' che, anche nel caso, appare atterrito, esterrefatto, cogitabondo. Infine c’è il selfie turistico o di società, quello dell''io c’ero/io ci sono stato'. Lo si riconosce per lo sfondo: capitali europee, parchi del divertimento, feste di compleanno, in treno, sull’aereo, in bicicletta o a bordo di una mongolfiera, chi se lo fa, vuole far sapere che c’era, anche lui, lì. E si è tanto divertito.

Il popolo del selfie

No, non c’è nulla di male a giocare con la propria immagine, la propria identità social-digitale, il proprio stare al mondo, se chi si cela dietro l’account ne è conscio.

E’ conscio che, appunto, è solo un gioco. Un modo per rendere la vita più piena, più stimolante e in fondo più degna di essere vissuta. Siamo soli e impauriti, un po’ tutti, davanti a un futuro che ha smesso di darci del tu. Perciò siate indulgenti quando li incontrate la mattina negli uffici, nelle fabbriche o peggio, spiaggiati sul divano in attesa di occupazione. Siano insegnanti, impiegati, operai, magazzinieri, casalinghe, precari, disoccupati: siamo noi. Gli stessi che la sera facciamo capolino dagli account con un brandello di Pasolini e la fotina levigata. Tutti alla ricerca di un modo migliore di vivere la vita. Tutti soli davanti a un futuro che ha smesso di darci del tu.