Il trattato di pace tra il governo colombiano e le Forze Armate rivoluzionarie della colombia (FARC), sottoscritto il 26 settembre scorso a Cartagena, una città costiera del paese, è stato respinto da un referendum popolare tenutosi ieri due ottobre. Il referendum, comunque vincolante per il governo, ha avuto un’affluenza di circa il 40% dell’elettorato: i no hanno ottenuto una percentuale del 51,3%, superando i sì per soli 65.000 voti.
L’accordo avrebbe concluso la guerra civile che insanguina il paese da ben cinquantadue anni ed è singolare che si sia deciso di sottoporlo a referendum, tralasciando di investire il Parlamento eletto, come da consuetudine internazionale, per la necessaria ratifica. Ma così, almeno, si è pronunciata la Corte Costituzionale di Bogotà.
Cinquantadue anni di guerra civile
La guerra civile, in Colombia, si combatte dal 1964, con una sola breve interruzione, a metà degli anni ottanta. Fu in tale lontana data che avvenne la costituzione delle FARC, allo scopo di opporsi militarmente alla violenta repressione governativa contraria alle esperienze di occupazione contadina delle terre prodottesi in alcune regioni del paese.
Nel frattempo, al comando delle FARC si sono succeduti Manuel Marulanda detto Tirofijo (tiro preciso); Guillermo Leòn, nome di battaglia Alfonso Cano (morto combattendo nel 2011) e, ora, Rodrigo Londonio detto timochenko.
Dopo il fallimento di un primo accordo di pace – quello del 1984-85 – i colloqui tra il governo e le FARC sono proseguiti sotto il governo del Presidente Alvaro Uribe (2002-2010) e con il suo successore Juan Manuel Santos, attualmente in carica. Nel frattempo, gli Stati Uniti (2002) e l’ Unione Europea (2005) hanno inserito le FARC nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, anche se la UE, l’anno scorso, ha provveduto a depennarlo.
A favore delle FARS, invece, si era speso l’ex Presidente venezuelano Hugo Chavez, che richiese alla comunità internazionale di considerarle non un’organizzazione terroristica, ma come parte combattente di una guerra civile, alla stregua di “insorti”.
La dichiarazione in tal senso, espressa dal governo Santos nel 2015, è stata la condizione essenziale per la conclusione dell’accordo, avviato a L’Avana a partire dal 2012, con la mediazione di Raul Castro.
E ora?
Gli osservatori internazionali ritengono che dietro al fallimento della consultazione popolare ci sia la mano dell’ex presidente Uribe, leader della destra, una volta promotore degli accordi ma, dopo esser passato all’opposizione, fautore di una linea dura contro le forze rivoluzionarie. Di certo, le maggior percentuali del no si sono avute nei territori dove l’azione militare delle FARC è stata più intensa.
Ora ci si chiede che cosa possa succedere. Il “cessate il fuoco”, faticosamente ottenuto, non sembra in discussione.
Il testo del quesito referendario (“Condividi l'accordo sottoscritto per terminare il conflitto e costruire una pace stabile e permanente?”), tuttavia, non lascia dubbi: bisogna tornare al tavolo delle trattative e sottoscrivere – quanto meno – un altro testo, per poi sottoporlo nuovamente a referendum. La Corte Costituzionale colombiana, a tal proposito, è stata chiara.
Nel frattempo, le Nazioni Unite e il Vaticano premono per la pace: Papa Francesco ha già detto che, in caso di vittoria del no, avrebbe depennato la Colombia dall’elenco degli Stati che avrebbe visitato. E non sembra la persona solita a ripensare le sue decisioni.