Eppur si muove! Dopo l'inaspettata ammissione di sconfitta del presidente del Gambia Yahta Jammeh alle ultime elezioni presidenziali dopo ventidue anni di tirannia, anche l'Angola sembra finalmente in procinto di disfarsi del suo monarca. Correva l'anno 1979 quando Agostinho Neto spirò a Mosca a causa di un tumore al pancreas, dopo più di vent'anni alla testa del Movimento di Liberazione dell'Angola. Dopo aver compiuto gli studi a Lisbona, ritornò nel proprio paese come guida del movimento di decolonizzazione che puntava a disfarsi completamente - senza alcun tentativo d'intercessione diplomatica - del dominio portoghese.

Dopo essere scampato a un tentativo di assassinio, si trasferì momentaneamente in Unione Sovietica, senza tuttavia riuscire a far più ritorno a casa.

Alla sua morte, gli succedette il collaboratore José Eduardo dos Santos, il quale assunse la carica presidenziale il 10 settembre del 1979 e, nonostante la guerra civile che ha incendiato il paese fino al 2002 - una delle più longeve e sanguinarie che si ricordino, seconda solo a Ruanda e Congo - non lasciò mai la poltrona. Si trovò subito a dover fronteggiare gli altri movimenti rivali, come l'Unione Nazionale per l'Indipendenza Totale dell'Angola del rivale Jonas Savimbi, morto in battaglia nel 2002, e altri gruppi paramilitari foraggiati dai paese del Patto Atlantico.

Come per la maggior parte dei teatri bellici del secondo novecento, l'Angola è servita da specchietto per le allodole in una guerra mai dichiarata ma eternamente combattuta tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. Dos Santos godette del sostegno di Mosca fino al crollo del Muro e all'avvento di Eltsin, ma la fine dei finanziamenti non determinò la sua resa.

E' di qualche giorno la notizia che lo vedrebbe finalmente pronto a rinunciare alla presidenza, dopo quasi quarantanni di dispostismo selvaggio, corruzione e feroci clientelismi che gli permisero, una volta ripulito il partito dai vecchi retaggi marxisti, di diventare uno degli uomini più ricchi del continente. L'Angola è uno dei primi esportatori di greggio del continente, e il sedicesimo su scala mondiale, perciò non è difficile pensare che, nonostante l'abbandono della poltrona, l'anziano rais non abbia già un delfino da inserire in una delle molteplici modifiche costituzionali per fare da continuatore alla sua politica.

Nonostante questo, la promessa di dimissioni ha innescato festeggiamenti senza precedenti a Luanda, così come in Gambia. Gli orrori che si sono avvicendati nei decenni - e nei secoli - addietro risulterebbero un'ottima ragione per portare a un popolo a perdere legittimamente la speranza della rinascita, eppure così non è. In Angola, il sogno di un domani più roseo, sebbene alle orecchie di un lettore occidentale possa risultare come il patetico sogno di un idealista diciassettenne, è oggi una concreta speranza, un valido motivo per lottare. Oggi che il crollo del prezzo del petrolio mette in ginocchio le economie di paesi che non possiedono altre risorse su cui puntare, una svolta democratica è l'unica aspettativa in cui si giusto riporre le aspettative di un popolo che non ha dimenticato la sofferenza, e le catene.