A nemmeno due mesi dal voto del 9 aprile scorso la Knesset – il parlamento israeliano – ha votato il proprio autoscioglimento. Il premier uscente Benyamin Netanyahu era uscito apparentemente vincitore dall’ultima consultazione elettorale. Non è però riuscito a raccogliere una maggioranza di almeno 61 deputati per formare il suo quinto governo. Sono stati ben 74 su 120 i deputati che hanno votato per l’autoscioglimento.

A favore di Netanyahu se ne sono espressi 45: solo 10 in più di quanto aveva raccolto il suo partito al voto dello scorso aprile.

Le nuove elezioni sono state indette per il prossimo 17 settembre. Non è andato in porto l’accordo che il premier aveva proposto ad una delle formazioni dell’ultradestra: quella capeggiata da Avigdor Lieberman.

Netanyahu tra l’incudine dei partiti ultra religiosi e il martello della magistratura d’Israele

Benjamin Netanyau è il leader del partito Likud, una formazione anch’essa di destra formatasi negli anni Settanta. Il Likud è storicamente subentrato al Partito laburista alla guida di Israele.

Progressivamente, però, ha trovato ancor più a destra, in parlamento, un numero di deputati sempre maggiore e sempre più decisivi per la formazione di un governo. Nelle ultime elezioni, infatti, la sinistra laburista ha ottenuto soltanto sei seggi.

A tali partiti religiosi ultraortodossi e di ultradestra Netanyau è stato costretto a chiedere appoggio anche questa volta. Tra i loro leader, uno dei riferimenti politici è l’ex ministro della difesa Avigdor Lieberman. Pur essendo a capo di un piccolo partito con cinque seggi, questi ha convinto gran parte dei deputati di ultradestra a non accordare la fiducia a Netanyau. Il pretesto sarebbe stato la richiesta governativa di estendere l’obbligatorietà della leva militare anche ai religiosi ultraortodossi.

Dietro le quinte, in realtà, pende l’accusa di corruzione nei confronti del premier. Per essa, Netanyahu dovrà rispondere alla magistratura nel prossimo mese di agosto. Votando per l’autoscioglimento, Lieberman ha fatto in modo che il leader del partito Likud si presenti di fronte al giudice senza la fiducia della Knesset e, alle elezioni, con una probabile incriminazione formale.

Il piano di Donald Trump per la pace in Israele

La crisi, peraltro, giunge mentre gli Stati Uniti stanno lavorando a un progetto di pace che l’ultradestra israeliana ritiene ancora troppo lontano dalla propria linea politica. Lo stesso Netanyahu lo riterrebbe suscettibile di miglioramento. Tale piano è un’evoluzione della teoria dei “due Stati”, propugnata dall’ONU, ma con una serie di punti fermi favorevoli ad Israele.

Questi sarebbero l’annessione alla madrepatria di tutte le colonie ebraiche in Cisgiordania, con le strade di collegamento. Ad Israele andrebbe anche la Città vecchia di Gerusalemme. Alla Nuova Palestina sarebbero lasciati i sobborghi di Gerusalemme Est, tra i quali uno da erigere a Capitale. Si propone inoltre la realizzazione di un autostrada a 30 metri dal suolo per il collegamento tra Gaza e ciò che resta della Cisgiordania palestinese. Ciò garantirebbe uno sbocco al mare all'Autorità Nazionale Palestinese.

Nessun ritorno nei luoghi di origine da parte dei palestinesi è previsto nel Piano Trump. Tuttavia gli Stati Uniti fanno ventilare un gigantesco programma economico a loro carico per risollevare le condizioni del nuovo Stato palestinese.

Su tali basi, il genero di Trump Jared Kushner, consigliere del presidente per gli affari israeliani, dopo aver conferito con il re del Marocco avrà un colloquio con il re giordano Abdullah II.

Nei prossimi giorni, inoltre, ci sarà un summit internazionale sull’economia palestinese. Il vertice è fissato nel Bahrein, uno degli Stati arabi filoamericani. Ad esso parteciperanno tutte le altre monarchie sunnite ma non i rappresentanti della Palestina e nemmeno l’Iran. Probabilmente, quindi, il summit servirà per verificare l’appoggio degli Stati sunniti alla politica anti-iraniana di Trump, piuttosto che risolvere il problema israelo-palestinese.

Nel frattempo, però, a La Mecca, l’Organizzazione della cooperazione islamica ha condannato il riconoscimento Usa di Gerusalemme (Ovest) capitale dello Stato di Israele. Un’ulteriore difficoltà, per Trump, di fare accettare il suo piano.