Una notizia che fa riflettere, soprattutto in materia di informazione e di libertà della divulgazione del pensiero e delle notizie utili a formarsi un'opinione ed una coscienza personale (spero che tali termini non siano considerati desueti, oggi che l'apparire sembra più importante dell'essere) ed un problema che non è soltanto italiano, in rapporto all'articolo 21 della Costituzione italiana.

Il New York Times, negli ultimi quattro mesi, è stato oggetto di ripetuti attacchi informatici da parte di hacker cinesi che hanno cercato di ottenere password di giornalisti ed impiegati della testata.

Lo ha denunciato lo stesso giornale che, al tempo stesso, assicura che, grazie agli esperti della sicurezza, tali attacchi sono stati tutti respinti con successo.

Secondo la prestigiosa testata – che vanta due ottime edizioni, tanto quella cartacea, quanto l'on-line, non è casuale che tali attacchi siano stati effettuati in questo periodo: infatti, sono cominciati in coincidenza della pubblicazione delle inchieste riguardo alle fortune accumulate dal premier cinese Wen Jiabao, che ammonterebbero a diversi miliardi di dollari.

In particolare, nel mirino degli hacker ci sono i computer e le caselle di posta elettronica tanto di David Barboza, che scrisse i reportage sul leader cinese, quanto di Jim Yardley, che oggi lavora presso il "South Asia bureau chief in India" e che in passato era di servizio al "boureau" di Pechino.

"I nostri esperti informatici - ha assicurato il direttore esecutivo del giornale, Jill Abramson - non hanno trovato alcuna prova che siano state rubate mail sensibili o files particolari utilizzati nella stesura dei nostri articoli sulla famiglia Wen, né che siano stati scaricati o copiati". La compagnia scelta dal New York Times perr indagare su questi attacchi, la Mandiant, ha spiegato che gli hacker sono penetrati nei computer di alcune università americane dove hanno installato dei 'malware' in grado di inserirsi nei sistemi informatici del giornale.

Analizzando questi particolari software, utilizzati di frequenza dagli informatici cinesi, la Mandiant ha potuto confermare che c'é Pechino dietro l'intera operazione, giacché quello utilizzato sarebbe lo stesso programma usato in passato dalle forze armate cinesi per sottrarre segreti a "contractor" dell'esercito americano.

Di fronte a queste prove, il Ministero della Difesa cinese ha negato ogni responsabilità: "La legge cinese - afferma in una nota pubblicata dal New York Times - proibisce ogni azione, compresa quella degli hacker, che danneggi la sicurezza di internet. Accusare le forze armate cinesi di lanciare cyberattacchi senza avere prove serie è poco professionale e senza alcun fondamento".

Eppure il New York Times non è l'unico media degli Stati Uniti ad essere incappato negli attacchi di hacker cinesi. L'anno scorso, infatti, anche l'agenzia Bloomberg cadde nel mirino: la maggior parte dei computer su cui lavorano i giornalisti furono colpiti. Anche in quel caso una concomitanza "politica": pochi giorni dopo che l'agenzia d'informazione pubblicò un articolo sulle ricchezze accumulate dai parenti di Xi Jinping, allora vicepresidente cinese, oggi segretario generale del Partito comunista cinese e, da marzo, nuovo presidente.