Donald Trump, con l'attacco sferrato nei giorni scorsi in Siria, ha cambiato radicalmente la sua politica internazionale per quanto riguarda il Medio Oriente. Nel 2013, quando un intervento in quella regione sembrava imminente, attraverso Twitter, il futuro presidente criticava l'amministrazione Obama esortandola a restare lontana da quell'inferno che avrebbe portato solo guai. Concetto ampiamente confermato, durante la campagna elettorale presidenziale, dal martellante slogan "America First". Fino a qualche giorno fa il suo immobilismo nella politica estera mediorientale ha provocato le critiche non solo dei democratici (favorevoli ad un intervento), ma anche dei falchi del suo stesso partito, quei Mccain e Graham che oggi invece esultano.

Va bene il risentimento, il dolore provocato dalle immagini in cui si vedono civili inermi soccombere sotto le bombe, ma tutto questo non deve distogliere lo sguardo dalle cause reali di questo conflitto. Innanzi tutto ci sono forti dubbi sull'uso di armi chimiche da parte del regime di Assad. Infatti, per quale motivo il dittatore siriano dovrebbe ricorrere all'uso di armi non convenzionali, attirandosi così ulteriore antipatia e inimicizia, in una guerra che ha praticamente già vinto? Le analogie con la notizia Fake di Bushiana memoria, per attaccare l'Iraq, sono tante. Forse la vera indole del Tycoon americano sta venendo fuori e si sta esternando per quello che è, un figlio (politico) di Bush.Inoltre, dai rapporti di forza e di alleanze che si sono creati in quella regione si evince che gli americani, per esportare la democrazia e la pace, si sono affidati ai Jihadisti di Al-Nusra e Al-Qaeda per ostacolare Assad, e ai fondamentalisti islamici Wahabiti di Qatar e Arabia Saudita, noti maestri di pace e democrazia, conformi alla politica sul ribasso del prezzo del petrolio attuata dal gigante a stelle e strisce per sfiancare e affamare Iran e Venezuela.

La colpa di Assad

La vera colpa di Assad è quella di essersi opposto, nel 2011, alla Qatar-Turkey Pipeline, la costruzione di un gasdotto di proprietà di Arabia Saudita, Qatar e Turchia, che con il benestare degli Usa avrebbe dovuto indebolire la leadership russa sul mercato del gas in Europa. Il dittatore siriano, in seguito, si è adoperato (sponsorizzato dai russi) per proporre un altro progetto, l'Islamic Pipeline di proprietà iraniana, siriana e irachena.Se questo è il motivo economico, ancora più devastante potrebbe essere quello politico.

Un disordine generalizzato in quell'area porterebbe ad una escalation di guerre con gli occhi puntati direttamente sul prossimo obiettivo, la Corea del Nord.Gli Stati Uniti da sempre intervengono dove sono toccati i loro interessi, per restare in zona basti pensare a Iraq (petrolio), Afganistan (gas) e Libia (gas), ma cosa hanno prodotto le soluzioni adottate in quei paesi, se non il caos.Ritornano in mente le parole dell'Arcivescovo di Aleppo Joseph Tobji, che nell'ottobre 2016, in un'audizione alla camera dei deputati a Roma, disse che per far finire questa guerra basterebbe smettere di vendere le armi e finanziare i terroristi.

Una semplice ricetta questa, che avrebbe dei tornaconto di indubbio beneficio:

- Eliminazione dell'Isis (Putin in 20 giorni è in grado di farlo).

- Smantellamento dei campi e delle truppe militari internazionali, con conseguente tranquillità per tutta l'area.

- Possibilità di ritorno a casa dei profughi sparsi in Europa e nel mondo per partecipare alla ricostruzione dei loro paesi.

Ma il prelato aggiungeva amaramente che forse non conviene fermare i conflitti, perché facendo le guerre il guadagno è doppio, si possono vendere le armi e si può, o si dovrebbe, ricostruire le rovine provocate.