E così siamo fuori. Con la Svezia ci è andato tutto male. Il loro mezzo tiro è entrato. Mentre noi abbiamo preso un palo, una traversa e abbiamo visto svanire per poco qualche buona occasione. Nel complesso l’Italia è parsa più forte della Svezia, ma passano loro.Ma parlare di sfortuna è fuorviante. Perché se giochi con un’ala come Candreva che non riesce mai a guadagnare mezzo centimetro sul suo difensore per mettere dentro un cross che sia uno, non è sfortuna. Se quando hai l’occasione per tirare in porta, la palla ti va alta, non è sfortuna.

Se ti trovi ad impostare con Chiellini che sbaglia i passaggi di qualche metro, non è sfortuna. Se giochi appena meglio della nazionale svedese più scarsa degli ultimi trent’anni e passano loro, non è sfortuna. Quello che emerge è un livello medio dei calciatori italiani veramente mediocre. Al quale si deve aggiungere un commissario tecnico in confusione, soprattutto nelle due sfide-spareggio.

Le scelte di Ventura

Puntare sul modulo 3-5-2 all’andata, lasciando fuori Insigne (unico vero talento offensivo di un certo livello) e la freschezza di El Sharawi era sembrata una scelta troppo prudente, guidata dall’obiettivo principale di non prendere goal per poi giocarsi tutto in casa. Riproporre a San Siro lo stesso modulo con:

  • tre difensori centrali (francamente inutili contro una squadra che non aveva nessuna intenzione di attaccare), ai quali gioco forza veniva richiesto molto lavoro di impostazione, soprattutto a Chiellini e Barzagli
  • Darmian (che è un ottimo terzino) che doveva re-inventarsi ala
  • Candreva che si era capito già all’andata non avrebbe mai superato il suo avversario, per cui su di lui non era nemmeno necessario raddoppiare
  • due giocatori offensivi in mezzo accerchiati dai loro rocciosi difensori (anche se almeno Gabbiadini si è rivelato un po’ più mobile degli altri)

Nel secondo tempo, Insigne è rimasto seduto.

Per lungo tempo Ventura è parso indeciso sul da farsi, perdendo un sacco di tempo. Ha chiesto a De Rossi di entrare, il quale gli ha risposto in malo modo ricordandogli che serviva fare goal e quindi meglio inserire qualche attaccante, non un centrocampista come lui. “Dobbiamo vincere, che entro io?” gli ha detto. Per concludere c’è poi stato l’ingresso di Bernardeschi, messo in una posizione francamente incomprensibile.

Ma non sarebbe stato meglio, già all’andata, rendendosi conto che loro avevano dalla loro parte la prestanza fisica, cercare di puntare sulla velocità, partendo con Insigne ed El-Sharawi (o Bernardeschi) ai lati di una punta come Immobile? Cercando di proporre ripartenze veloci, magari con un centrocampo composto da Verratti e due giocatori di sostanza?

E una difesa a quattro dietro? E cercare di giocarsela in 180 minuti nella consapevolezza che, se pur di poco, noi siamo più forti?

E invece siamo rimasti ancorati su questo 3-5-2, che ti porta in fase difensiva ad avere cinque giocatori arretrati, e solo due davanti, facili preda dei difensori.

Un pensiero lo merita Jorginho, migliore in campo a San Siro, a lungo ignorato da Ventura, come se avessimo il centrocampo della Spagna di qualche anno fa e per l’italo-brasiliano non ci fosse spazio. Abbiamo sacrificato quel poco talento che abbiamo sull’altare della prudenza.

La prudenza, il male del nostro calcio

E forse è proprio questo uno dei mali del nostro calcio: la prudenza. I giovani non li facciamo giocare troppo presto, perché "e se poi sbagliano e mi fanno perdere la partita"?

Il modulo? Meglio un 3-5-2 o comunque uno schema di gioco ben coperto, perché non vorrai mica che mi becchi un goal?

Sei un giocatore veloce ed abile nel dribbling? Impara ad essere più disciplinato tatticamente, altrimenti per te non c’è posto. Ecco: il talento va normalizzato, va disciplinato, altrimenti pecchiamo di imprudenza. La prudenza è la nostra parola d’ordine, sempre e comunque. Vale per gli allenatori, per i dirigenti sportivi, ma anche per chi gravita attorno al mondo del calcio, per i giornalisti ad esempio. Si parla di far giocare i giovani, ma poi appena sbagliano vengono subito messi in croce sui giornali.

Per non parlare del calcio offensivo. Quando vinci 4-3 hai evidenti problemi in difesa, se vinci 1-0 va tutto bene, sei solido.

Un allenatore è bravo quando la sua squadra non becca goal. I campionati si vincono con la difesa, ripetono sempre tutti.

Questa mentalità, coltivata per anni e anni, sin da quando vent’anni fa eravamo ancora protagonisti del calcio che conta, porta alla logica conseguenza di schierare nel doppio confronto con i modesti svedesi una squadra più adatta ad un prudente catenaccio che al gioco offensivo. Anche al ritorno, quasi che la paura fosse non tanto quella di non riuscire a fare goal ma di prenderne. Ma il catenaccio può andar bene se giochi contro il Barcellona, quando invece affronti una squadra alla tua portata, devi giocartela, far valere la propria forza. Ma la prudenza la vedi anche nel DNA dei nostri calciatori: il loro continuo fuggire da ogni contrasto, i passaggi sempre un po’ arretrati per non rischiare di venire intercettati e se poi la ripartenza non si concretizza, pazienza, l’importante è non sbagliare.

Meglio un passaggio facile riuscito che uno difficile mancato. Ma se non rischi mai, non ottieni quel vantaggio sul campo che ti porta a creare l’occasione.

Gli ingredienti per la rinascita

C'è l’opinione diffusa che si dovrebbe rifondare tutto nel mondo del calcio italiano. Probabilmente è vero, ma se vogliamo davvero risorgere dovremo partire dall’inculcare il concetto a tutti, dalle scuole alle televisioni, che il calcio (che ricordiamolo è uno spettacolo che genera introiti molto cospicui, non solo un “gioco”) deve prima di tutto far divertire, e gli ingredienti per far divertire sono: tecnica, velocità (di passaggio e di corsa) e goal.