Sono le 3 del mattino di domenica 5 dicembre 1456. Per oltre due minuti trema la terra dell’intero Regno di Napoli, dall’Abruzzo alla Campania alla Basilicata. Si tratta del più devastante Terremoto avvenuto sul suolo italiano, a memoria storica. Un evento grandioso nella sua drammaticità. Ben 5 epicentri distribuiti lungo la dorsale appenninica che va dall’Abruzzo alla Basilicata. Una situazione estrema che somma cinque forti terremoti separati ma avvenuti simultaneamente. Una coincidenza, non casuale, che da sola potrebbe spiegare le conseguenze catastrofiche che ne seguirono.

Tanto più che a questo quadro apocalittico si aggiunse il Maremoto che colpì le coste ioniche tra Gallipoli e Taranto.

L’epicentro principale fu quello di Benevento, infatti la città fu quasi interamente rasa al suolo, con un pesante bilancio di vite umane. Secondo una stima, la magnitudo del terremoto fu di 7.2 Richter, XI sulla scala Mercalli. Una conferma dell’alto rischio sismico di quella zona e di quel tratto appenninico. Le vittime accertate furono quasi 30mila. Il terremoto fu talmente violento da essere avvertito nettamente in Toscana e, addirittura, in Sicilia.

Uno sciame sismico durato tre anni

Lo sciame sismico, secondo le cronache dell’epoca, sarebbe durato diversi anni, forse tre, durante i quali si verificarono altri fortissimi terremoti nelle zone maggiormente interessate, spesso avvertiti distintamente anche a Napoli.

Secondo altre fonti, sarebbe durato molti mesi ma non anni. Di sicuro ci fu una fortissima “replica” il 30 dicembre 1456.

Altre due zone epicentrali furono localizzate nella valle del Pescara, in Abruzzo e in Irpinia. Isernia (1500 morti) e Bajano furono praticamente cancellate e insieme ad Ariano Irpino, San Giorgio del Sannio, Vinchiaturo, Grottaminarda, Teramo, Rivisondoli, Roccaraso, Castel di Sangro, Frosolone, Colli a Volturno, Forlì del Sannio e altri piccoli comuni subirono danni gravissimi e migliaia di morti.

Ma nemmeno Napoli la passò liscia. I danni furono enormi per quantità e importanza. Infatti, papa Pio II in una lettera inviata all’imperatore Federico III d’Asburgo, racconta di 30 mila palazzi crollati e quasi tutte le chiese danneggiate nella struttura. Tra i danni alle strutture ecclesiastiche, il crollo del campanile della basilica di Santa Chiara e lo smottamento della chiesa di San Domenico Maggiore che dovette essere ricostruita totalmente.

A Napoli, danni a monumenti di enorme valore

Per la basilica o monastero di Santa Chiara, uno dei più importanti luoghi di culto napoletani, purtroppo non si è trattato dell’unico danneggiamento subito nella sua storia. Fu fatta costruire da Roberto d’Angiò per accontentare la moglie Sancia di Maiorca, nel 1300. Gli alleati la bombardarono, il 4 agosto 1943, durante la Seconda guerra mondiale causando un incendio che duro quasi due giorni e distrusse molti affreschi di enorme valore, alcuni addirittura giotteschi. La ricostruzione e i restauri, tra grandi polemiche, furono completati nel 1953 e la chiesa poté essere riaperta al pubblico.

Crollò quasi completamente, anche, Castel Sant’Elmo. Un edificio imponente ricavato direttamente dalla roccia di tufo giallo napoletano.

Quello che attualmente si trova sulla collina di San Martino, visibile da ogni punto della città, fu ricostruito dagli spagnoli mezzo secolo dopo, rispettando l’austerità precedente della fortezza.

Questo castello è passato alla storia anche perché durante la rivoluzione napoletana del 1799 divenne la roccaforte degli insorti che vi piantarono il primo albero della libertà e vi innalzarono la bandiera della Repubblica Napoletana. Purtroppo, la vicenda ebbe un triste epilogo e in quelle stesse mura furono rinchiusi i capi della Repubblica Napoletana, tra cui Giustino Fortunato, Domenico Cirillo e Luisa Sanfelice.