Nessuna terza guerra mondiale, nonostante qualche collega si sia sbizzarrito a cercare un titolo ad effetto dopo il raid missilistico degli Stati Uniti in Siria. Siamo convinti che dalle parti del Cremlino abbiano considerato l'evento per quello che è, a tutti gli effetti: un'azione dimostrativa, il modo più diretto di mostrare i muscoli da parte dell'amministrazione Trump e far capire alla controparte che Washington intende dettare le sue condizioni sulla questione siriana. L'incontro in programma a Mosca, tra il ministero degli esteri russo, Sergej Lavrov, ed il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, è rimasto in agenda.
Probabile che, nel corso del bilaterale, volino parole grosse e scambi di accuse, ma in fin dei conti le relazioni diplomatiche tra le due superpotenze erano già ai minimi storici nell'ultimo scorcio della presidenza Obama. Ci chiediamo se nel corso di questo atteso confronto si discuterà anche della guerra all'Isis, in teoria è l'unico obiettivo che dovrebbe accomunare le opposte fazioni. Perché l'attacco statunitense alla base siriana di al-Shayrat e tutta la tensione internazionale generata, rischiano di trasformare lo Stato Islamico nel ruolo di grande beneficiario.
Le 'conseguenze negative'
"L'azione statunitense avrà conseguenze negative", ha tuonato il Cremlino subito dopo l'attacco missilistico americano in territorio siriano.
Riteniamo possibile che Mosca si riferisse non tanto ai rapporti con Washington, praticamente inesistenti prima del raid, quanto alla guerra in atto contro l'Isis. La coalizione a guida USA, composta da milizie curde ed arabo-sunnite, ha avviato la sua offensiva verso Raqqa, roccaforte e capitale del sedicente Califfato in Siria.
Un'azione che si avvale di truppe di terra, ma che viene aperta dai raid dell'aviazione statunitense. Sui cieli della Siria vigeva un memorandum, un accordo stipulato tra Russia e Stati Uniti per la sicurezza dei voli militari. Dopo l'attacco ad al-Shayrat quell'intesa è stata revocata e, oltretutto, è stato chiuso anche il canale di collegamento tra i comandi militari che aveva lo scopo di evitare incidenti aerei.
La risposta russa al bombardamento della base, da dove sarebbe partito il presunto attacco chimico a Khan Sheikhun, è stata vista come un avvertimento al Pentagono perché, allo stato attuale, qualunque aereo giudicato 'pericoloso' per l'esercito siriano potrebbe venire tranquillamente abbattuto. Tutto ciò complica l'offensiva su Raqqa, far volare gli aerei della coalizione ora sarà molto più complesso e questo rallenterà notevolmente i tempi della campagna, permettendo alle milizie jihadiste di riorganizzarsi.
La mancanza di un vero piano anti-Isis
Ciò che la Casa Bianca, presto o tardi, sarà costretta ad ammettere è l'assoluta mancanza di un vero piano d'azione contro lo Stato Islamico. In Iraq, un Paese dove non esiste una sanguinosa guerra civile come in Siria e dove il governo supporta gli Stati Uniti, è stato molto più facile pianificare l'offensiva su Mosul.
Al contrario, l'avanzata verso Raqqa, in Siria, rischia ora di essere mutilata di una componente fondamentale. L'attacco ad al-Shayrat, teoricamente punitivo nei confronti di Bashar al-Assad, ha messo in luce due cose. In primo luogo che la posizione statunitense su tutta la questione è sempre la stessa, da sei anni: Assad deve lasciare la leadership di Damasco, non perché sia teoricamente uno spietato tiranno, ma semplicemente perché fornisce alla Russia un'invidiabile testa di ponte in Medio Oriente. Washington intende spezzare l'egemonia sull'area che il Cremlino ha pianficato insieme all'Iran e che ha nella Siria di Assad un prezioso alleato. Questa è la priorità dell'establishment statunitense, lo è sempre stata.
La rivoluzione siriana è nata con questo scopo, supportata e finanziata da Paesi come Arabia Saudita, Turchia e Qatar politicamente vicini alla Casa Bianca. L'Isis ha rappresentato l'imprevisto, ma la sua presenza in Siria dove ha combattuto e combatte contro tutti, compreso l'esercito regolare siriano, non era certamente sgradita a chi voleva esclusivamente la caduta del governo di Assad. Putroppo per costoro, il Califfato è una mina vagante e la sua abile propaganda ha proliferato ovunque, arruolando 'soldati' che hanno attaccato in tutto il Medio Oriente ed in Europa. La recrudescenza di attentati, in meno di un mese sono stati colpiti il Regno Unito, la Russia, la Svezia e l'Egitto, rivela ancora una volta che la strategia del terrore voluta da Abu Bakr al-Baghdadi non fa alcuna distinzione.
Nonostante tutto, gli Stati Uniti non hanno un vero piano anti-Isis perché, contrariamente ai proclami di Donald Trump, non è una priorità.
Ciò che la Storia dovrebbe insegnare
Stati Uniti e Russia alleate contro l'Isis? Sarebbe la soluzione, ma al momento è pura utopia. L'attacco alla Siria ha scavato un solco profondissimo o, per meglio dire, lo ha ulteriormente allargato. La guerra allo Stato Islamico proseguirà pertanto su due fronti (o su tre, contando anche quello aperto dalla Turchia a nord della Siria) con forze in gioco che, pur perseguendo lo stesso obiettivo, potrebbero ostacolarsi a vicenda. È già accaduto, la base che gli americani hanno attaccato e che, comunque, resta parzialmente operativa, era nelle disponibilità delle aviazioni siriana e russa per attaccare le postazioni dell'Isis.
Per chiudere i conti con l'organizzazione terroristica più pericolosa della storia recente basterebbe teoricamente una collaborazione momentanea tra Washington e Mosca, a patto che la prima tolleri di trovarsi fianco a fianco con Assad che, tra i suoi mille difetti, combatte tutt'ora le milizie jihadiste ed è sempre stato un valido oppositore all'integralismo islamista, come testimoniato dal suo governo laico. Eppure, durante la seconda guerra mondiale, Stati Uniti ed URSS strinsero un patto di allenza per combattere il nazismo in Europa e l'imperialismo giapponese nel Pacifico. L'obiettivo fu raggiunto, i nemici comuni vennero sconfitti e poi giunse l'inevitabile gelo tra i due blocchi. La Storia insegna che talvolta è necessario 'turare il naso' dinanzi alle priorità. C'è da chiedersi, piuttosto, che posto abbia l'Isis tra le questioni prioritarie.