L’azione lampo di Donald Trump, con l'attacco sferrato alla base siriana di al-Shayrat, lascia intendere che gli Stati Uniti non faranno da spettatori dinanzi alla paziente e, certamente, abile strategia condotta da Vladimir Putin in Medio Oriente. Se la Russia vuole conquistare un ruolo egemone nella zona più martoriata del pianeta dovrà fare i conti con Washington, anche se è probabile che l’attacco diretto resti un episodio isolato: Trump è consapevole che, nel caso di un bis, arriverebbe allo scontro con la Russia. Lo ‘sceriffo’ ha premuto il grilletto, lo ‘stratega’ non ha risposto in virtù di un accordo di ‘non disturbo’ con la controparte sulle rispettive azioni militari.

Quel memorandum che aveva come obiettivo la sicurezza dei voli nei cieli siriani è stato però sospeso, così come il canale di collegamento tra i rispettivi comandi militari. È un monito nei confronti della Casa Bianca: qualunque altra azione considerata ‘illegittima’ sarà contrastata da Mosca. Tradotto in parole povere, nessuno vieterà al comando russo di azionare la contraerea nel caso in cui si levasse in volo qualcosa di nocivo nei confronti dell’alleato siriano. L’ulteriore mossa di Putin è stata quella di spostare una fregata dalla flotta del Mar Nero e dirigerla verso le coste siriane, per rafforzare la presenza navale nel Mediterraneo.

Muro contro muro

Non siamo granché ottimisti sui futuri rapporti tra le due superpotenze: Il segretario di Stato americano, Rex Tillerson ha esposto tutta “la delusione per l’atteggiamento della Russia che continua a sostenere il regime di Assad, nonostante si sia macchiato di un crimine di guerra”.

Il riferimento è, ovviamente, al presunto attacco chimico attuato dall’aviazione siriana a Khan Sheikhun. Presunto, perché non ci sono prove: in teoria la Siria ha smantellato da tempo il proprio arsenale chimico, motivo per il quale il ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, ha paragonato questo scenario a quello irakeno del 2003, quando gli States invasero il Paese di Saddam Hussein per distruggere le armi di distruzione di massa in suo possesso.

Il regime di Saddam si era certamente reso responsabile di atrocità, ma le presunte armi non sono mai state trovate. “È stato un pretesto, come in Iraq nel 2003 – ha detto Lavrov, commentando l’attacco USA – e siamo convinti che fosse già stato pianificato prima del presunto attacco chimico”. Sui fatti di Khan Sheikhun è stata fornita una versione dal ministero della difesa russo, secondo cui “la diffusione di gas tossici è stata causata dal bombardamento di un deposito militare dove erano nascoste armi chimiche dei ribelli”.

Washington non l’ha considerata attendibile ed ha avviato il raid punitivo sulla Siria, ma così facendo ha dato modo ai russi di protestare giustamente per “un’aggressione ingiustificata, considerato che non ci sono prove di un attacco chimico dell’aviazione siriana”. Oltretutto gli Stati Uniti hanno agito senza attendere il responso del Consiglio di sicurezza dell’ONU. In soldoni, l’atteggiamento americano nei confronti del governo siriano di Bashar al-Assad è nuovamente di ‘tolleranza zero’, ma su questo punto il Cremlino è irremovibile, soprattutto dopo le brillanti operazioni militari che hanno portato l’asse Mosca-Teheran-Damasco ad un passo dalla vittoria militare.

Il cambio di rotta di Trump

Il più deluso è senza dubbio Vladimir Putin. In un colpo solo, i due tasselli più importanti del mosaico siriano sono andati fuori posto. La scarsa affidabilità di Recep Erdogan era in conto, dalla scorsa estate ad oggi il presidente turco è stato protagonista di intese inattese e clamorosi voltafaccia, da una parte e dall’altra. Il presidente russo non si attendeva, però, il cambio di rotta dello sceriffo Trump. Proprio lui che in campagna elettorale aveva condannato duramente l'interventismo statunitense del recente passato e sembrava ben disposto ad avviare una fattiva collaborazione con il Cremlino, alla prima occasione utile ha ordinato un attacco missilistico contro uno dei più fedeli alleati di Mosca.

Un evento che ha inoltre rinsaldato storiche alleanze in ambito Nato che sembravano logore.

Guerrafondai per necessità

L’atteggiamento di Donald Trump sorprende soltanto chi non conosce la storia americana. Tutti i leader degli States hanno sempre agito nell’ambito di un determinato establishment, rimasto pressoché immutato da oltre due secoli. Un sistema controllato dalle lobbies delle armi e dalle gerarchie militari, dove il potere politico è espressione di questi elementi. La guerra è il vero motore che muove la prima economia mondiale, quella di un Paese che soltanto per 20 dei 241 anni che sono trascorsi dalla dichiarazione di indipendenza, non è stato impegnato in azioni militari. E nel conteggio non rientrano i supporti indiretti, la fornitura di armi e copertura politica come nel caso della famigerata Operazione Condor in America Latina negli anni ’70.

Le precedenti dichiarazioni di Trump, pertanto, erano soltanto ‘strilloni’ da campagna elettorale? Probabile, ma anche no. Citiamo Maria Zakharova, portavoce del ministero degli esteri russo: giusto ieri ha dichiarato che “l’attacco USA in Siria è il frutto della rivalità tra le élite politiche e militari di Washington”, dove la componente politica è quella nuova, rampante, dell’attuale presidente che politico di professione non lo è mai stato. Un duello in atto, testimoniato dalla ‘bruciante’ sconfitta di Trump alla Camera in occasione della mancata soppressione dell’Obamacare. È suonato come un avvertimento alla nuova guida del Paese, le cui mani sono libere fino ad un certo punto, da parte di quel sistema di potere che non può e non vuole tollerare una Russia che detta legge in un’area geografica dove gli americani hanno spesso fatto il bello ed il cattivo tempo. Così la nuova guerra fredda è servita.